Votes taken by Revan

  1. .
    Revan è il mio pg storico su un gdr di World of Warcraft ormai purtroppo chiuso da anni, poi reincarnatosi in un gdr di pokemon XD È durato in totale quasi dieci anni, nelle sue due incarnazioni. In realtà il nome era nato per un pg su un forum su cui avevo fatto un paio di giocate al massimo. Non vuol dire nulla di preciso, mi piaceva il suono (il prototipo si pronunciava alla francese ma il personaggio vero e proprio si pronuncia esattamente come si legge) ed era un anagramma di raven (ero un po' edgy ai tempi) ._.
  2. .
    «Col cavolo che mi metto ‘sta robaccia.»
    Eli mise un po’ il muso, anche se Nozomi sembrava divertita. Ripiegò lo yukata che le stava mostrando, un obbrobrio nero con dei fiorellini azzurri che Makoto avrebbe messo solo se l’alternativa fosse stata girare tutta nuda.
    «Sei incontentabile.» protestò la bionda, ripartendo già alla ricerca di qualcosa di nuovo.
    «Sei tu che sei testarda.Ti ho già detto che non metterò nulla del genere.»
    «Ma non puoi metterti la stessa roba che ti metti sempre! È una festa! E sicuramente Kala vorrà vederti con qualcosa di bello addosso.»
    «… Cosa c’è di male in quello che metto di solito? È comodo, mi mette a mio agio ed è pratico in caso di combattimento.» si lamentò, andandole dietro trascinandosi dietro le buste degli acquisti che le altre due avevano già fatto.
    «Non ci sarà un combattimento, chi vuoi che vi attacchi in mezzo al Villaggio della Nuvola?» protestò ancora Eli, apparentemente spazientita.
    «Non si sa mai.» brontolò, alzando le spalle. Eli si lasciò sfuggire un lamento frustrato. Makoto fece un sospiro. Non era sua intenzione infastidirla, ma quando aveva accettato di uscire a fare compere con loro aveva specificato con molta intensità che avrebbe preferito mangiarsi uno yukata intero piuttosto che indossarlo.
    «Se non uno yukata mettiti almeno qualcosa di carino. Fallo per Kala.» propose Eli. Makoto sbuffò.
    «Non credo che possa trovare “carino” uno yukata.»
    «Perché, cosa credi che indosserà stasera?»
    «Non uno yukata.»
    «Certo che indosserà uno yukata.» intervenne Nozomi. «L’ha comprato giorni fa.» Makoto la osservò con la fronte corrugata, e Nozomi distolse lo sguardo con il fare imbarazzato di qualcuno che aveva appena rivelato qualcosa che non doveva essere rivelato.
    «Ma non indossa mai abiti tradizionali, compra sempre cose moderne.» argomentò, confusa.
    «Beh, è un’occasione particolare. È festa, e ha un appuntamento con te. Vuole vestirsi bene, per questo dovresti farlo anche tu.» spiegò pazientemente Nozomi. Makoto la osservò per qualche altro istante, confusa, poi chinò leggermente il capo, sconfitta.
    «Non uno yukata, però.»
    Accettata l’idea di cercare un tipo di abbigliamento diverso, le due ragazze andarono a pagare i loro nuovi abiti mentre Makoto le precedeva fuori dal negozio per prendere un po’ d’aria. Quando la raggiunsero, raccolse i nuovi acquisti tra le buste che stava già trasportando e si incamminò insieme a loro.
    «Siete già state ad appendere i tanzaku al bambù?» chiese distrattamente Nozomi, mentre voltava il capo a destra e a sinistra alla ricerca di nuovi negozi da visitare. Makoto grugnì un’assenso.
    «Sì, Kala ci teneva particolarmente. Siamo andate stamattina.» mormorò. Makoto non era mai stata religiosa. La sua visione era molto semplice: la vita è sempre ingiusta, quindi nessun dio sorvegliava sulle vite dei mortali. Se anche fosse esistita una divinità, il suo non-intervento nelle vite dei mortali significava che era un’entità inutile o direttamente malevola, quindi non degna di essere venerata. Poteva arrivare a credere a qualche spirito naturale o cose del genere, d’altronde il chakra rendeva possibile ogni miracolo, ed entità come le evocazioni - e i loro re in generale - andavano molto vicino ad essere quel tipo di “divinità”, agli occhi di Makoto. Ma degli dèi misericordiosi e desiderosi di avverare desideri? Tutte stronzate.
    «E… anche tu hai espresso un desiderio?» chiese Nozomi in tono stranito, neanche le avesse appena letto nella mente.
    «Kala ci teneva.» mugugnò, alzando le spalle, un modo indiretto di dire di sì. Aveva fatto parecchia fatica a scegliere qualcosa da scrivere. Makoto era una persona semplice: quando voleva qualcosa, se la prendeva. Non aveva desideri, aveva obiettivi. Al momento si sentiva abbastanza soddisfatta: aveva delle persone attorno che, a poco a poco, stava cercando di iniziare a considerare come una famiglia, e la sua carriera stava andando abbastanza bene. Guardava oltre, verso l’esame Grafemi o a quello da Jonin, erano quelli i suoi “desideri”, ma di certo non avrebbe chiesto a un presunto dio di aiutarla con quella faccenda. L’unico motivo che aveva per desiderare quelle promozioni era che i suoi meriti fossero riconosciuti, quindi chiedere a una presunta divinità di regalargliele era un controsenso. Aveva pensato all’unica cosa che non poteva far avverare lei in nessun modo, l’aveva scritta sbrigativamente e aveva abbandonato lì il foglio, dimenticandosene fino a quel momento. Eppure il ricordo del desiderio la mise a disagio e in imbarazzo. Aveva improvvisamente caldo e guardò altrove. Eli ne approfittò per punzecchiarla con uno sguardo furbetto.
    «Cosa ci hai scritto?» le chiese con un tono particolarmente malizioso. «Riguarda Kala, per caso?»
    «Ho desiderato che la gente impari a farsi gli affari propri.» tagliò corto Makoto. Eli mise su un broncio e la chiamò antipatica, ma il tono sembrava abbastanza divertito.
    «Io… forse avrei dovuto desiderare qualcosa riguardo a mia sorella.» aggiunse un po’ più seria, dopo qualche istante di riflessione.
    «Sì, tipo un cervello.» propose Makoto, anche se si imbronciò. «Non ha molto senso insultarla quando non c’è.» si lamentò, con uno sbuffo che sembrò divertire Eli. Nozomi si era invece incupita anche se cercava di non darlo a vedere. Makoto non fece in tempo ad intervenire, perché Eli la prese subito sottobraccio.
    «In realtà ho desiderato di poter stare con te per sempre.» le disse, col preciso intento di tirarla su di morale, sebbene Makoto non fiutasse alcuna bugia. Sembrò funzionare comunque, perché Nozomi sorrise e le due iniziarono a civettare, quindi Makoto spense il cervello e smise di ascoltarle, concentrandosi piuttosto sui negozi.

    BCeVIvp


    Era quasi ora di andare a prendere Kala, quindi Makoto perse un po’ di tempo a sistemarsi davanti allo specchio. Era una cosa che non faceva mai, odiava guardare la propria immagine riflessa, anche solo per la paura che degli occhi di un colore diverso ricambiassero il suo sguardo. Tuttavia Nozomi le aveva messo la pulce nell’orecchio, quindi eccola lì, a cercare di sistemarsi i vestiti nuovi addosso. Aveva decisamente rifiutato la gonna proposta da Eli, accettando invece i pantaloni che aveva scelto Nozomi, dei jeans piuttosto semplici, resistenti ed elastici. Di certo non comodi in caso di combattimento, ma almeno non ostacolavano troppo i suoi movimenti. La maglia era ancora più semplice, bianca, senza maniche e lunga fin sotto la cintura, ed era una proposta di Eli. Infine, Nozomi aveva pescato una giacca di pelle da chissà dove ed Eli l’aveva accolta con entusiasmo, quindi alla fin fine Makoto si era convinta a metterla. Se non altro, quegli abiti le permettevano di nascondersi almeno qualche arma addosso. Le maniche della giacca erano abbastanza larghe da poterci nascondere sotto le due lame retrattili, aveva potuto appendersi il ventaglio alla cintura e per buona misura si era infilata un paio di shuriken nelle tasche. Guardandosi allo specchio le venne naturale chiedersi se non fosse il caso di inventarsi qualche nuovo tipo di arma celata da conservare tra i capelli, ma alla fin fine non le venne in mente nulla, anche perché non si era ancora abituata all’idea che ci sarebbe voluto un bel po’ per farli tornare alla lunghezza precedente. Maledetto Izumi.
    Nozomi ed Eli non erano ancora pronte, quindi Makoto uscì da sola e si incamminò verso casa di Kala. A differenza delle altre due, lei si fece trovare sulla soglia di casa, già pronta ad andare. In effetti, aveva acconciato i capelli in modo tradizionale e, come Nozomi le aveva già anticipato, indossava uno yukata color indaco. Le stava davvero bene, ma fu il dettaglio dei fiori di magnolia, a cui probabilmente era stata particolarmente attenta, a mettere Makoto in imbarazzo. Kala era altrettanto imbarazzata. Salutò Makoto con un casto bacio sulla guancia, poi salutò entrambi i suoi genitori, entrambi nell’ingresso di casa loro. Sua madre salutò calorosamente sia lei che Makoto, mentre suo padre si limitò a salutare Kala e a guardare torvo Makoto. Lei ricambiò lo sguardo senza particolare ostilità. Le stava davvero antipatico, ma non lo considerava nemmeno una minaccia. Rispondere alle sue provocazioni era qualcosa di semplicemente futile, per il momento. Offrì il braccio a Kala, come era solita fare ogni tanto, e si incamminarono verso casa Kuga per andare a recuperare le ragazze.
    «I tuoi non vanno al festival?» chiese, stranita dalla cosa.
    «… No.» mormorò. «A mio padre da’ fastidio la confusione.» aggiunse, con un tono non esattamente felice. Ecco un altro motivo per farselo stare antipatico, sebbene in realtà su quell’argomento specifico fossero d’accordo. Un tempo, quel tipo di festival erano un’occasione ghiotta per sfilare qualche borsello da delle tasche troppo gonfie, ma da quando era diventata una ninja e non aveva più bisogno di rubare aveva ignorato feste e festini a cui non era direttamente invitata da qualcuno. Per Kala poteva fare un’eccezione, ovviamente, ma anche per Eli e Nozomi. Considerando che Natsuki e Anzu se n’erano andate a Oto, erano rimaste da sole a casa e per quanto potessero apprezzare la libertà di avere casa quasi solo per loro, Makoto ipotizzava potessero apprezzare un po’ di compagnia. Quando arrivarono a casa, le due erano finalmente pronte. Eli aveva indossato uno yukata azzurro a fiori - Makoto fu contenta di scoprire che non aveva scelto quello a scacchi che dava l’impressione che avesse indossato una tovaglia da cucina - mentre Nozomi ne aveva preso uno viola. Conclusero rapidamente i convenevoli con Kala, e si incamminarono rapidamente verso il festival, evidentemente impazienti di vedere le bancarelle.
    Le bancarelle non erano state allestite troppo lontane dal centro abitato, quindi non avevano molta strada da fare. A Makoto cambiava poco, ma in effetti per le altre tre sarebbe stato un problema andare in giro con quei sandali assurdamente scomodi. Non riusciva proprio a capire a chi potesse sembrare una buona idea. Quando arrivarono a destinazione, le vie erano già tutte occupate dalla gente, cosa che a Makoto creò non pochi problemi. Già solo la concentrazione di odori diversi era qualcosa di devastante. A parte tutte le persone dagli odori diversi, c’era un piacevole ma fastidioso connubio di odori da decine di bancarelle diverse: dolciumi vari, mele caramellate, yakisoba, okonomiyaki e yakitori, ma soprattutto gli immancabili takoyaki. Tutta roba che Makoto apprezzava molto, tranne forse le cose troppo dolci, ma sentirli tutti insieme era una piccola tortura per il suo naso e per il suo stomaco. Infilò entrambe le mani in tasca, lasciando il gomito sinistro leggermente più sporto per offrirlo a Kala, e strinse appena appena i due shuriken che si era portata, infilando un dito nel buco centrale e tenendo una delle punte sul palmo. Il dolore, per quanto lieve, la aiutò a tenersi concentrata, all’inizio. Eli, Nozomi e Kala sembravano molto allegre, anche se Makoto si guardava intorno con aria nervosa. Evitò di far pesare loro il suo stato d’animo, e rimase in silenzio mentre loro sceglievano cosa visitare. Eli decise di andare a mangiare subito una mela glassata, mentre Kala fu attratta da una bancarella che vendeva maschere di legno dipinte a mano. Molto carine, disse, ma fu delusa dall’assenza di una maschera che ricordasse una donnola, dato che voleva regalarla a Makoto. Fecero un giro rapido di tutte le bancarelle, provando anche qualcuno dei giochi. Man mano che passava il tempo, Makoto cominciò ad abituarsi alla folla e ne fu sempre meno infastidita, tanto che riuscì a godersi uno spiedino di pollo. Fu particolarmente grata quando Nozomi propose di cenare insieme con una porzione di yakisoba a testa.
    Dopo cena, Eli e Nozomi si allontanarono per fare una passeggiata da sole, lasciando Kala e Makoto da sole. Dopo un attimo di imbarazzo generale, Makoto offrì nuovamente il braccio a Kala e ripresero a passeggiare per il festival. Kala comprò un ciondolino portafortuna per sua madre, Makoto non trovò nulla che fosse di particolare interesse a nessuno dei suoi conoscenti, quindi decise di non comprare nulla. Si soffermarono su qualche bancarella di quelle con i giochini, Kala volle provare un tiro al bersaglio, anche se prima dovette rimettere gli occhiali che aveva conservato nell’obi. Com’era prevedibile, non era esattamente una cima, ma Makoto non fu poi così tanto più brava. La sua mira era sempre stata orribile e non l’aveva mai allenata più di tanto, considerando i suoi problemi di vista. Per quanto non fosse nulla in confronto a quella di altri ninja, era comunque meglio di quella di un civile, quindi dopo qualche tentativo riuscì a vincere un peluche per Kala. Anche lì l’assenza di donnole era snervante, quindi Makoto scelse il pupazzo di un tanuki, un cane procione fortunatamente senza l’attributo caratteristico con cui tendeva ad essere rappresentato. A Makoto dava un po’ fastidio che non fosse una Mustela, anzi era una cosa completamente diversa, ma almeno aveva una pelliccia simile alle itatsi, compresa la mascherina attorno agli occhi.
    Kala si soffermò infine ad una bancarella con il classico gioco del pescare i pesciolini con un retino. Con aria triste, si mise a spiegare come fosse davvero poco carino usare degli animali vivi come premio di un gioco, come fossero un oggetto, soprattutto perché tendenzialmente quei pesciolini andavano a dei bambini con delle famiglie disinteressate, quindi a gente che non aveva idea di come tenere dei pesci. Era disumano, secondo lei. Makoto si soffermò ad osservare il gioco, che nella base era piuttosto semplice. Bisognava pescare dei pesciolini con un retino di carta, prima che la carta si strappasse. A giudicare dai tentativi osservati, fatti da altra gente, era una semplice questione di fisica. Bisognava essere rapidi, o la carta cedeva. Non bisognava muovere il retino con un moto perpendicolare alla carta, o l’acqua l’avrebbe strappato più in fretta. Makoto ipotizzò che servisse una certa rapidità di mano e un movimento specifico e preciso. Fortunatamente, in quel campo i ladri erano eccellenti e lei non era da meno. Desiderosa di riscattarsi dalla pessima figura del tiro al bersaglio, senza una parola Makoto si avvicinò al banchetto, mollò qualche moneta all’omino dietro al bancone, comprando qualche tentativo, poi iniziò a provare. Ruppe un paio di retini prima di riuscire a capire il tipo di movimento migliore, poi iniziò a pescare. Anche senza sprecare chakra, i suoi movimenti erano difficili da seguire agli occhi di normali civili, quindi ebbe la soddisfazione di lasciare Kala particolarmente ammirata e l’omino particolarmente infastidito, oltre che ad attirare qualche commento positivo da dei passanti che si erano fermati a guardare. Andò avanti, usando diversi retini prima di riuscire a svuotare l’intera vaschetta dai suoi pesciolini. Al commento infastidito dell’omino su come fosse “ingiusto che partecipassero dei ninja”, rispose acida sottolineando la sua necessità di trovarsi un lavoro vero, raccattò tutti i sacchetti con dentro i pesciolini e si allontanò.
    «Tu sai tenerli, vero?» chiese a Kala, il tono ancora infastidito dall’arroganza dell’omino.
    «Ehm… no. Ma posso informarmi. Mia mamma aveva un acquario quando ero piccola, magari ce l’ha ancora. Posso chiederglielo, se vuoi che li tenga io!» rispose Kala, guardandola coi suoi soliti occhioni.
    «Ovvio che voglio che li tieni tu, li ho presi apposta. Almeno tu li tratti nel modo giusto. Magari ne lascio giusto uno a Natsuki.» aggiunse, con fare pensoso.
    Kala non rispose, limitandosi a fare un sorrisone.
    Camminare con tutti quei pesciolini addosso non era qualcosa di particolarmente comodo, quindi di lì a breve decise di creare un trio di cloni superiori che potessero portare i pesciolini fino a casa di Kala, affidandoli a sua madre almeno temporaneamente. Kala ne approfittò, comprando delle porzioni da asporto di un po’ di cibo da portare ai suoi genitori, quindi Makoto creò un ultimo clone, prima di mandarli tutti in missione.
    La stanchezza per l’uso improvviso di tutto quel chakra, mista alla fatica che faceva a stare in mezzo a tutti quegli stimoli cominciava a dare alla testa a Makoto, e l’irritazione per l’omino non faceva che peggiorare la situazione.
    «Imbrogliona a me… se si apre un banchetto in un villaggio di ninja si aspetta che i ninja non partecipino? Non ho neanche usato chakra, se lui è un cretino non ci posso far nulla...» si lamentava, mentre continuavano a passeggiare. Ora che aveva le mani libere Kala ne approfittò per posarne una sulla schiena di Makoto, accarezzandogliela per cercare di calmarla. Doveva aver intuito che Makoto cominciava a essere al limite, quindi si fermò solo ad un’ultima bancarella, dove finalmente aveva notato una maschera da donnola. Più nello specifico, era un volto bianco, da donnola, con una benda sull'occhio. Makoto aveva imparato a riconoscere quelle rare rappresentazioni di Kamaitachi, il Re delle Donnole. Aveva chiesto molto tempo fa di lui a Saruwatari prima, a Chitachi dopo, anche se non aveva avuto modo di incontrarlo, ancora. Kala la comprò, poggiandola poi sulla testa di Makoto. Ne scelse anche delle altre per Natsuki, Eli e Nozomi, poi le propose di allontanarsi per stare un po’ più tranquille. Makoto accolse con gioia la sua proposta. Si infilarono tra le bancarelle e uscirono dal festival, cercando un luogo dove riposare. Si infilarono nel parco giochi dal quale avrebbero sparato i fuochi d’artificio. In quel momento era ancora abbastanza deserto, e allontanandosi dalle parti più affollate si infilarono in un sentiero alberato, scegliendo infine una panchina isolata su cui sedersi. Non si erano allontanate troppo, il festival era ancora a portata di vista, ma gli alberi aiutavano ad attutire suoni, odori e soprattutto tutte quelle luci accese, che cominciavano ad essere sfocate e sbavate alla vista di Makoto. Le girava un po’ la testa, quindi si lasciò andare sulla panchina e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi un attimo. Kala si assicurò che stesse bene, poi si congedò temporaneamente, dicendole che sarebbe tornata subito. Makoto aprì un occhio, guardandola incuriosita, ma lei stava già corricchiando via. Con un sospiro, Makoto approfittò quella pausa, godendosi la fresca aria notturna. Non le piaceva il freddo, ma la folla l’aveva fatta sentire accaldata, quindi il clima tanto odiato di Kumo le faceva comodo in quel momento. Si rilassò in pochi minuti, mentre aspettava Kala.
    All’improvviso, sentì un fruscìo alle sue spalle. Si voltò di scatto, quasi facendosi male al collo, ma non c’era assolutamente nulla dietro di lei. Le foglie erano immobili, non c’era nemmeno un filo di vento e soprattutto non c’era nessun odore. Era sicura di non esserselo immaginato, eppure sembrava essere l’unica soluzione. Tornò a voltarsi in avanti, osservando le bancarelle lontane tra gli alberi. Poi, sentì un tocco sulle sue spalle. Due mani che si poggiavano. Rimase immobilizzata, dapprima per la paura, poi perché riconobbe quel tocco. Freddo e caldo allo stesso tempo. Si sentiva confusa e paralizzata, ma non si sentiva in pericolo.
    «È davvero una ragazza dolce.» commentò una voce familiare, dietro di lei. «Sono contenta che ti renda felice.»
    «È... » mugugnò, la voce che le si strozzò in gola. Si schiarì la voce. «Sì. È una brava ragazza.» le confermò, cercando di tranquillizzarla.
    «E questa è una bella maschera. La indosserai?» aggiunse la voce, in tono vagamente divertito, ma non di scherno.
    «N-No, non mi farebbe sentire col naso… Credo che la conserverò insieme agli altri regali.» le rispose, cercando di tranquillizzarla.
    «Ah, giusto.» disse lei, divertita. «Avevo anche io lo stesso problema.»
    «Davvero?» le chiese, ancora senza osare voltarsi. Quella era un’informazione nuova, inutile, ma la faceva sentire meglio sapere da chi aveva ereditato quella capacità.
    «Grazie per avermi richiamato. Pensavo che mi odiassi per averti lasciata da sola.»
    «Cos- come potrei odiarti? Sono io che ho… che ti ho… dovresti essere tu a odiarmi.»
    «Come potrei farlo io?» le fece il verso. Makoto la sentì chinarsi. Aveva gli occhi fissi davanti a sé, ma poteva sentire le sue braccia stringersi attorno al suo petto, appena fuori dal suo campo visivo. Era così vicina che poteva sentire il suo alito sfiorarle l’orecchio mentre le parlava in un sussurro. «Sono così contenta di sapere che stai bene. Eri così… persa, l’ultima volta. Mi sentivo così in colpa. Avrei voluto fare di più per te, ma sono davvero contenta che sei riuscita a trovare da sola un po’ di felicità. Sono contenta che anche il mio desiderio sia stato esaudito.»
    Makoto la sentì muoversi, percepì le sue fredde labbra posarle un bacio sulla testa e poi sciogliere l’abbraccio.
    «Guarda, sta tornando Kala. Non lasciartela sfuggire, eh!» si raccomandò, con tono divertito. «Non negarti la felicità. È il mio unico desiderio.» ribadì.
    «Aspetta!» la chiamò Makoto, voltandosi finalmente verso di lei e scoprendo che non c’era più nessuno. Sparita nel nulla, senza traccia olfattiva né visiva. Il terriccio dietro di lei non era spostato, i rami dei cespugli intonsi, le foglie immobili. Il rumore dei sandali di Kala sul ghiaietto la fece tornare alla realtà. Per fortuna, con così poca luce Kala non avrebbe potuto notare i suoi occhi lucidi e le sue guance umide. Si passò entrambe le mani sulla faccia per nascondere le ultime tracce e si alzò, andandole incontro. Kala aveva portato una vaschetta di takoyaki. Makoto la fissò per qualche istante, col petto pieno di calore. Afferrò la vaschetta, tirandola via insieme alla mano di Kala, lontana dal suo petto in modo da poterla cingere con la mano libera e attirarla a sé senza rovesciarsela addosso, poi la baciò senza dire una parola. Kala fu molto sopresa dal gesto, ma superò rapidamente la sorpresa lasciandosi andare contro di lei. Quando Makoto la lasciò andare, ridacchiò nervosamente.
    «Ehm… ti va di mangiarli?» le chiese, con un certo imbarazzo. Makoto annuì e tornò a sedersi sulla panchina. Kala fece lo stesso, ma a metà del suo movimento Makoto la intercettò per i fianchi e se la fece sedere in braccio. Kala sembrava imbarazzata, ma contenta. Makoto era dispiaciuta per averla messa in imbarazzo, ma aveva bisogno di un po’ di contatto per calmarsi e non se la sentiva di dirglielo a voce.
    «Con chi parlavi?» le chiese, cercando di dissimulare l’imbarazzo.
    Makoto strinse le labbra. «C’era un… gufo. Volevo fartelo vedere, ma è volato via.» le rispose. Kala sorrise, contenta, e Makoto ebbe un colpo al cuore. Makoto non mentiva, Makoto era sempre sincera. Ma in quel momento non se la sentiva di dirle la verità. Forse un giorno, ma in quel momento non ne aveva le forze. Kala era comunque soddisfatta, e si offrì di imboccarla. Makoto accettò e approfittò delle mani libere per stringere ancora la ragazza. Era strano che lei cercasse contatto con gli altri. Kala era già un’eccezione, ma generalmente non era comunque così esplicita. Ma in quel momento non aveva intenzione di trattenersi e in ogni caso Kala era tutto meno che dispiaciuta. Finì in fretta di mangiare i suoi takoyaki, poi rimase lì con Kala ancora per un po’, in silenzio. Kala era molto più rilassata di lei, tanto da appoggiare il braccio attorno alle sue spalle in un mezzo abbraccio e di lasciarsi andare su di lei, con gli occhi chiusi e l’aria pacifica. Makoto non si sentiva ancora benissimo, e quello che in tutta probabilità non era stato che un sogno non aveva aiutato il suo stato mentale. L’unica spiegazione logica era quella. Doveva essersi appisolata mentre aspettava Kala e aver fatto uno di quegli strani sogni, di nuovo. Di certo nessuna divinità poteva riportare in vita i morti, anche solo per poco tempo. Non esisteva nessuna magia del genere. Ma era troppo stanca per pensarci seriamente, quindi cercò di spegnere il cervello e godersi il contatto con Kala.
    «Tra poco accendono i fuochi. Ci conviene spostarci, se stiamo qui il rumore sarà forte.» le sussurrò Kala, dopo chissà quanto tempo passato in silenzio. Makoto annuì debolmente e la lasciò scendere, prima di riprendere a camminare. Stavolta le prese con decisione la mano e la guidò lontano, più in profondità nel parco. A un certo punto, senza dirle nulla, la prese in braccio e con un salto scavalcò la recinzione.
    «Ti porto in un posto migliore.» rispose sbrigativamente alle sue proteste. Nonostante fosse una frase molto vaga, Kala sembrò soddisfatta e si strinse più forte a lei per non cadere. Makoto iniziò a saltare, prima su un balcone, poi su un tetto, da lì su altri tetti, sempre più in alto. Si fermò sulla terrazza di uno di quegli edifici incassati direttamente nella montagna, tipici di Kumo. Da lì si guardò intorno alla ricerca di qualcosa di ancora migliore. Alla fine si fermò definitivamente su un edificio esattamente sopra le bancarelle del festiva, solo molto più in alto. Guardando in giù, si potevano vedere le lanterne del festival, quindi secondo i calcoli di Makoto…
    Il primo razzo partì esattamente davanti a loro, esplodendo poco più in alto. Da lì c’era un’ottima visuale, sgombra da ogni ostacolo, abbastanza vicina da poter vedere tutto, abbastanza particolare da rendere unica l’esperienza per Kala, che di certo non aveva come abitudine il saltellare sui tetti. A Makoto non piacevano i fuochi d’artificio, il rumore forte che creavano innervosiva lei così come le sue donnole, non sopportava l’odore di polvere da sparo e di bruciato che lasciavano. Ma osservarli riflessi negli occhi di Kala, oltre i suoi occhiali, riusciva a renderli quasi tollerabili. Si sentiva stanca e stordita, quindi si ritrovò a fissare la ragazza a lungo, con la testa svuotata da ogni pensiero.
    «Ma sono bellissimi!» esclamò Kala, eccitata.
    «Già.» mugugnò Makoto, senza pensarci.
    Kala spostò lo sguardo su di lei. La luce intermittente dei fuochi d’artificio rendeva palese il suo imbarazzo. Stavolta fu lei a cercare il contatto. Si avvicinò cautamente a Makoto, cercando un bacio da cui si separò quasi subito.
    «Grazie, Makoto.» mormorò. Makoto ripensò alle parole ascoltate poco prima.
    «Sono io che devo ringraziarti.» le rispose con voce roca. Kala gettò le braccia attorno al suo collo e la baciò ancora.
    Aveva davvero importanza, cosa le aveva permesso di sentire nuovamente quello spirito? Se era una divinità ad aver esaudito il suo desiderio o se invece s’era addormentata e aveva sognato tutto? No, decise. Non aveva importanza. Aveva detto qualcosa di vero, in fondo. E per una volta, forse era il caso di ascoltare il consiglio altrui, che venisse da uno spirito o dal suo inconscio.
  3. .
    CITAZIONE
    Re del Flood: Sempre GIIJlio
    Nuovo utente più promettente: Mi manca il mio amico Inuzuka ç_ç
    Golden Staffer: GIIJlio ma anche Bren e Utino

    Pg più antipatico: A 'sto giro Jack fa bingo mi sa.
    Pg più puccioso: Kiria e Karril u.u
    Pg più simpatico: Anche qui Karril u.u
    Pg più cattivo: Emma tra quelli che ho seguito
    Pg più spaccone: Jack o Drey, direy :jack:
    PG più deviato: Emma
    PG più originale: Lilje che parla schioccando le dita mi piace u.u

    Miglior Tag Team: Non saprei, ce ne sono stati pochi in effetti
    Miglior Stratega: Mitsuye chiaramente u.u
    Azione più Suicida: Il povero Matt anche se non è colpa sua ç_ç
    Tecnica del Mese: Sono una persona semplice, vedo castelli di sabbia pucciosi, voto Rin.
    Azione Memorabile: Non so bene chi votare ma Kunny che si teletrasporta dal cesso mi è rimasta impressa.

    Miglior Ship: KarrilxRivolo (o NatsukixNessuno, anche se la AnzuxMei e la AnzuxIzumi sono sempre nel mio cuore)
    PNG del Mese: Nessuno (... :ohoh: )

    A sto giro partecipo anche io dai u.u
  4. .

    Zona residenziale del Villaggio della Nuvola, 14 febbraio 2020


    Per la prima volta in vita sua, Makoto era arrivata in ritardo ad un appuntamento. Di solito non aveva nulla da fare tra una missione e l’altra, quindi se doveva incontrare qualcuno ad un orario preciso, non c’era nulla a trattenerla. Quella sera, Kala era stata particolarmente sfortunata, e aveva dovuto aspettarla per una buona mezz’ora. Makoto aveva avuto giusto il tempo di lavarsi e cambiarsi prima di raggiungere la ragazza, e le si era presentata con aria particolarmente insofferente. Si scusò più bruscamente del dovuto, ma Kala non sembrò farci troppo caso, limitandosi a lanciarle un’occhiata preoccupata. La invitò all’interno del ristorante, e notando il suo nervosismo, cercò di convincere il cameriere a concedere loro una saletta privata piuttosto che il tavolo per due che lei aveva precedentemente prenotato. Servì una buona dose di persuasione - e anche una bella mazzetta, ipotizzò Makoto - ma alla fine riuscì a convincerlo. Makoto gliene fu particolarmente grata. Era stata una giornata particolarmente stressante per lei, e di solito quando era in quello stato i suoi sensi sembravano amplificarsi. Le chiacchere della gente diventavano urla belluine, tanti odori diversi si mescolavano insieme e diventavano insopportabili, le luci soffuse del ristorante diventavano un caleidoscopio di forme irregolari e fastidiose. Le sembrava quasi di poter sentire il suono continuo del masticare, e la cosa le dava la nausea. Non era una cosa che le succedeva spesso, ma non era la prima volta. L’aveva spiegato a Kala, tempo prima, quando le era successo di innervosirsi in mezzo alla folla in modo simile. Forse Kala lo ricordava, e per quello Makoto apprezzò il suo gesto.
    Con fare particolarmente stanco, Makoto fece entrare Kala, entrò dietro di lei e si chiuse la porta alle spalle. Lasciò andare un respiro che stava trattenendo e si accasciò su uno dei cuscini attorno al tavolo. Era un ristorante tradizionale, di quelli col tavolo basso, e quella era una saletta per più di due persone, per quello probabilmente erano così restii a far stare dentro solo loro due. Makoto si tolse il giubbotto con fare particolarmente esausto, si sistemò distrattaente i capelli e poi si stese sulla panca con fare molto signorile. Chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, mentre Kala si sistemava a sua volta. La udì togliersi tutti gli strati esterni, più numerosi di quelli di Makoto: cappello, giubbotto, sciarpa. Quando si tolse quest’ultima, le narici di Makoto vennero invase da un odore familiare, sovrapposto a quello normale della ragazza.
    «Mh… hai cambiato profumo?» le chiese distrattamente. Avendo gli occhi chiusi, non la vide arrossire.
    «Sì. È uno di quelli che ho fatto io in casa. Ti piace? È troppo forte?» mormorò lei in risposta.
    «No, tranquilla.» disse a mezza voce. «Mi ricorda qualcosa.»
    «È… è alla magnolia.» rispose. Makoto la percepì sedersi accanto alla sua testa e aprì un occhio, osservandola da sotto.
    «Ah. Sono già fiorite?» le chiese, incuriosita. La magnolia era una pianta primaverile, d’altronde. Era strano che nel Paese del Fulmine, tanto freddo, fiorissero così tanto in anticipo.
    «… No. Ce l’avevo da un po’.» ammise lei, guardando altrove. Makoto avrebbe voluto chiedere di più, ma in quel momento il cameriere bussò per prendere le loro ordinazioni. Lanciò un’occhiata torva a Makoto stesa in quel modo, a cui lei non aveva nemmeno voglia di rispondere. Fece per alzarsi, ma Kala le poggiò una mano sulla spalla, invitandola a restare stesa. Makoto esitò per un attimo, guardandola incuriosita, poi cedette e tornò distesa. Kala ordinò per entrambe: due porzioni di spaghetti saltati con verdure, del ramen al manzo e del sushi per Makoto, degli involtini di verdure e un qualche tipo di insalata per sé stessa. Ordinò anche del sakè a bassa gradazione. Il cameriere le osservò per qualche istante, molto probabilmente chiedendosi se avessero l’età giusta per berlo. Il coprifronte legato attorno al collo di Makoto - o forse lo sguardo fulminante che lei gli riservò - lo persuase a non fare domande e ad accettare l’ordinazione.
    Ci sarebbe voluto un bel po’ per avere il loro cibo. Il ristorante, per qualche motivo, era abbastanza pieno e loro erano tutto sommato in ritardo. Makoto si rassegnò all’idea di avere lo stomaco vuoto ancora a lungo, ma non era una grande tragedia. Il cameriere aveva portato dell’acqua fresca. Si stava bene nella saletta. Le luci erano basse, il rumore del ristorante era attutito e gli unici odori erano quello del legno che componeva la stanza e quello di Kala. Quest’ultima piegò la sua sciarpa e fece per sollevarle la testa con delicatezza, in modo da avere uno strato più morbido sotto ad essa. Makoto la osservò incuriosita, chiedendosi il perché di tanta gentilezza. Era davvero così sconvolta da meritarsi tutte quelle accortezze? Probabilmente sì, in effetti.
    «Come mai sei arrivata così tardi? Di solito sei sempre in anticipo.»
    «Ugh… sono finita in un dirupo.»
    Kala quasi si soffocò con l’acqua che stava bevendo.
    «Non uno profondo. Non sono mica morta.»
    «Ti sei fatta male?»
    «Qualche graffio.» sbuffò lei, sollevando le maniche della felpa per mostrarle le braccia malridotte. Kala emise un versetto sconfortato, e senza dire nulla frugò nella sua borsa. Acchiappò le braccia di Makoto e cominciò a medicarle col poco che aveva dietro. Makoto la lasciò fare. In genere non apprezzava troppo il contatto fisico, anzi, rifuggeva abbastanza da qualsiasi tentativo. Ma dopo due anni si era ormai abituata al tocco gentile di Kala, come un gatto randagio si abitua gradualmente ai contatti più cauti e delicati. Strinse i denti mentre la ragazza disinfettava i graffi, ma non protestò. Le raccontò della missione, per distrarsi un po’ dal bruciore.
    «In pratica uno stronzo pieno di soldi voleva far fare un giro nella natura a quella stramaledetta peste di suo figlio. Quindi siamo andati su per la foresta. Li ho scortati per un po’, finché il ragazzino ha deciso che voleva giocare con Rei. Gli ho detto che Rei non è un animale domestico, ma lui ha voluto fare di testa sua. Rei ha sopportato un po’, poverina, ma quando lui le ha tirato la coda si è messa a ringhiare. Quindi lui s’è cacato sotto ed è scappato via. Lo avrei recuperato senza problemi, ma il suo papy ovviamente preferiva cazziarmi piuttosto che lasciarmi andare. Grandissima testa di cazzo. Si è messo a dire che Rei era pericolosa, che io ero responsabile, che doveva essere soppressa. Mi ha pure afferrato il braccio per impedirmi di allontanarmi.» sbuffò Makoto.
    «Grave errore.» commentò Kala, a metà tra il preoccupato e il divertito, mentre bendava come poteva quei graffi.
    «Già. L’ho mandato a fanculo, ho detto a Rei di tenerlo lì e sono andata a recuperare quel disgraziato del figlio. Ovviamente si era cacciato nei guai ed era scivolato nel fiume. Rischiava di finire giù dalla cascata, ma l’ho recuperato prima. Lo stavo riportando su ma mica poteva andare tutto bene, no.» continuò, cominciando a infervorarsi e ad agitare le mani, provocando delle proteste da parte di Kala che stava ancora cercando di medicarle.
    «Sai, salto quasi venti metri in alto. Mi attacco alle pareti. Corro abbastanza veloce da essere invisibile all’occhio di un civile. Posso condensare l’aria sotto ai piedi per creare piattaforme e saltare più in alto. Sarebbe stato facile riportarlo su. Ma ovviamente il piccolissimo pezzettino di stronzo mica si stava fermo. Si agitava continuamente, piangeva, strillava. Si è messo a tirarmi i capelli. Quindi mi ha fatto cadere di sotto. E ho dovuto attutire io la caduta perché sennò ci crepava. A quel punto mi sono rotta i coglioni e l’ho fatto addormentare con un’illusione.»
    «Giustamente.» commentò lei, non senza una certa nota di sarcasmo.
    «L’ho riportato dal papy. Ma indovina? Rei l’aveva mezzo aggredito per tenerlo fermo. Non gli ha fatto del male serio, ovviamente. Solo qualche graffietto. Gli ha rovinato i vestiti e ha minacciato di morderlo. Quindi l’ho trovato che cercava di arrampicarsi su un albero per sfuggirle. Ho addormentato pure lui e sono tornata al Villaggio.»
    «Che disastro...»
    «Già. Si sono svegliati già in ufficio e si sono messi a fare come i pazzi. Dicevano minchiate tipo che li avevo aggrediti. Il tizio in ufficio ha cercato di calmarli. Quando hanno detto di non voler pagare però s’è incazzato pure il funzionario. Non si promette una paga ai ninja di Kumo per poi rimangiarsi la parola. È pure spuntato fuori Kyomaru a capire che cazzo succedeva. Ha zittito tutti, ovviamente. E gli stronzi se ne sono andati dopo aver pagato. Mi sono comunque dovuta scusare con loro. Mi aspettavo pure la cazziata da Kyomaru, ma ha evitato. Sono abbastanza sicura che era dalla mia parte ma non poteva dirlo davanti ai clienti. È un po’ uno stronzo ma è ragionevole. Sai che mi stava sulle balle tempo fa? Però è meno stronzo di quello che pensavo. E comincio a capire perché è sempre scazzato.»
    «… È anche bello?» chiese Kala, un po’ a caso. Makoto la guardò, perplessa.
    «Boh? Non saprei. Non me ne frega più di tanto.»
    Kala cercò di nascondere un sorrisetto soddisfatto.
    «Perché, ti interessa?»
    «A me? Macché!» Kala rimase molto sorpresa, inizialmente, poi si mise a ridere. Makoto non capì il motivo. «Comunque si è risolto tutto, no?»
    «Sì, sì… è stata solo una giornata di merda.»
    «Spero che questa serata basti a rimediare.» mugugnò Kala a mezza voce. Makoto riaprì un occhio per guardarla di nuovo. La ragazza era completamente rossa in volto, ma era concentrata sulle braccia di Makoto. Cominciava a sospettare che ci fosse qualcosa di non detto, ma non aveva la forza mentale di processare le informazioni. Chiuse di nuovo gli occhi e cercò di rilassarsi, assecondando alla cieca i movimenti di Kala ma rimanendo in silenzio.
    Passarono un po’ di tempo in silenzio, mentre aspettavano da mangiare. Makoto rilasciò molta della tensione che aveva in corpo, e oltrepassò diverse volte il confine tra il sonno e la veglia, pur restando molto vicina ad esso. Non si addormentò mai del tutto, ma l’atmosfera rilassata le fece rendere conto di quanto fosse stanca. Quando arrivò il cameriere con le loro ordinazioni, fece un sacco di fatica per mettersi seduta, ma dopo essersi stirata un po’ i muscoli della schiena si sentì meglio.
    Iniziarono a mangiare, in silenzio. Il cibo caldo era una manna, dopo un pomeriggio passato nella neve tra i monti del Paese e il gusto del sushi pregiato era un buon modo di ricordare quanto la sua vita fosse cambiata molto negli ultimi anni. Anche Kala sembrava soddisfatta e mangiò con gusto, versando sakè per entrambe. Era così entusiasta del cibo che ordinò anche una grande nave di legno piena di sushi di vario tipo. Mangiò tutti i pezzi vegetariani, lasciando a Makoto tutto il resto. Alla fine della cena erano pienissime entrambe. Makoto si accasciò contro lo schienale con un sospiro soddisfatto. Kala la invitò a sdraiarsi di nuovo, e Makoto accettò di buon grado. Sentì Kala avvicinarsi di nuovo alla sua testa. Senza pensarci troppo, Makoto strisciò sulla panca verso di lei e poggiò la testa sulle sue gambe. Erano morbide e calde, di sicuro molto più comode di un freddo sedile o una sciarpa piegata. Kala fece una risatina nervosa e guardò altrove. Makoto le lanciò un’occhiata, notando come fosse rossa in viso. Improvvisamente si rese conto di sentire caldo a sua volta, in particolar modo sul volto. Non se ne stupì più di tanto. C’era caldo nella saletta, e aveva anche bevuto un po’ d’alcol. Di certo non abbastanza da sentirsi i sensi offuscati, ma forse non era così improbabile pensare che l’avesse riscaldata a tal punto.
    «Ti da fastidio?» chiese a Kala. Lei si affrettò a scuotere il capo, facendo dondolare i suoi boccoli. Makoto si ritrovò ad osservarli, affascinata come un gatto da un giocattolo. Kala incrociò il suo sguardo e guardò altrove. Makoto restò ad osservarla, corrucciandosi. C’era qualcosa di strano in Kala, qualcosa che non riusciva a decifrare. La ragazza era agitata. Lo sentiva nel suo odore, ma poteva vederlo anche senza l’aiuto del suo fiuto. Ipotizzava che non avrebbe risposto ad una domanda diretta, quindi sospirò e cercò di farla parlare in modo da farla tranquillizzare. Tornò a chiudere gli occhi e le chiese come aveva passato la settimana. Kala accettò l’esca e iniziò a raccontare distrattamente. Non c’era molto di avventuroso nella vita di Kala. Non aveva problemi con i genitori, era una famiglia benestante, non aveva problemi a scuola. Viveva una vita estremamente… normale. Makoto però ne era comunque affascinata, per qualche motivo. Probabilmente perché era tutto ciò che lei invece non aveva mai avuto: un tetto sopra la testa, una famiglia, stabilità economica. Erano tutte cose che Makoto aveva cominciato ad avere solo da poco, da quando aveva accettato l’offerta di Natsuki. Non riusciva a considerare del tutto i Kuga la sua famiglia… ma di certo era la cosa che ci si avvicinava di più. In particolare era difficile considerare Natsuki in modo diverso da come aveva fatto negli ultimi anni. D’altronde c’era voluto tanto prima che la Saetta Saggia si decidesse a mostrarsi come un’umana, davanti a lei, ed era successo una sola volta, quasi per errore. Makoto immaginava che anche offrirle uno spazio nella famiglia Kuga non fosse stato facile, ma non era la stessa cosa di quando aveva ammesso una delle sue paure più grandi davanti a lei. Mentre Makoto rifletteva, Kala continuò a parlare. Makoto la ascoltò solo a metà, presa com’era dai suoi pensieri, ma riuscì a seguire più o meno tutto il discorso, che comunque non avrebbe contenuto informazioni importanti per un esterno. Makoto invece cercò di assorbire il più possibile: le nuove idee che aveva avuto per il suo hobby del fai-da-te, le interrogazioni a scuola, l’aver trovato un nuovo negozio di dolci che voleva provare. Makoto era in qualche modo contenta di sentirla parlare così tranquillamente. Quando l’aveva conosciuta, Kala era una vegana convinta che i carnivori non dovessero mangiare la carne. Si era ricreduta col tempo, ed era passata invece all’essere vegetariana, riconoscendo come certi estremismi non fossero effettivamente benevoli nei confronti degli animali. Anche il suo hobby si era evoluto. A quel tempo aveva creato da sola la colla che Makoto aveva fiutato, ma aveva imparato a fare molti prodotti diversi, principalmente profumi e saponi che fossero il meno dannosi possibile per l’ambiente e per gli animali. Makoto non comprendeva a pieno la sua passione, ma trovava comunque interessante sentirla parlare di certi argomenti, ora che Kala aveva imparato a pensare con la sua testa e non a seguire certe cretine. Come quella Kai, reginetta della scuola caduta in disgrazia con non poca soddisfazione da parte di Makoto. Suddetta bulla aveva tormentato l’intera scuola, a quanto pareva, ed era passata da cacciatrice a preda quando Makoto l’aveva fatta punire per un crimine che, per quanto minore, aveva completamente buttato alle ortiche la sua immagine di ragazza perfetta davanti agli adulti. A volte Makoto si preoccupava che potesse sfogarsi su Kala, già ritenuta responsabile dalla bulla, ma sembrava aver abbassato la cresta e sembrava anche ricordare la promessa di Makoto di spezzarle tutte le dita se l’avesse toccata ancora. Bei tempi. Erano passati ormai anni.
    Mentre stava ad ascoltarla, Makoto si stiracchiò, allungando le mani dietro la testa, stando attenta a non fare troppa pressione sulla gamba di Kala. Nel muoversi, però, sfiorò la sua mano. Lei non ci fece troppo caso, ma Kala bloccò il suo discorso, quasi pietrificata. Con fare un po’ scocciato, stufa di fare finta di niente, Makoto si rialzò e piantò gli occhi nello sguardo di Kala. Lei lo evitò abilmente.
    «È tutta la sera che sei strana. Che è successo?» sbottò quasi. Kala rimase in silenzio. Makoto fece lo stesso, sostenendo lo sguardo. Alla fine la ragazza si prese di coraggio, inspirò a fondo e poi le rispose.
    «È che… Eli mi ha convinto a farlo, ma è più difficile del previsto.»
    A Makoto spuntarono mille metaforici punti interrogativi sulla testa. Che c’entrava Eli in tutto quello?
    «Beh, Eli finirà probabilmente nei guai se non impara a farsi una vagonata di cazzi suoi ogni tanto.» rispose, in tono neutrale. «Che ha fatto stavolta?»
    Kala esitò ancora. In generale, Makoto si sarebbe irritata. Ma quella sera era fin troppo esausta e rilassata per arrabbiarsi. A malapena riusciva a tenere gli occhi aperti. Mugugnò un “lascia perdere” a mezza voce. Kala fece un versetto strozzato. Makoto sbuffò e si voltò verso il tavolo, riempiendosi un bicchiere d’acqua e iniziando a bere. Kala inspirò a fondo.
    «Makoto! Mi piaci!»
    Makoto sputò tutta l’acqua che aveva in bocca e cominciò a tossire.
    «Ma in che senso?» le chiese, stupidamente, dopo che aveva smesso di soffocare.
    «Nel senso che sono innamorata di te! Da un sacco di tempo!» urlò lei. Ora che aveva sputato il rospo sembrava le venisse fin troppo facile continuare a parlare. Tra l’altro, Makoto si rese conto di nuovo di sentirsi il volto stranamente accaldato. Stava… davvero arrossendo?
    «Ma lo so che non sei interessata. Non ti chiedo nulla. Eli mi ha convinto a dirtelo. Almeno mi metterò il cuore in pace e smetterò di sognare che mi b-baci.» disse, deglutendo e alzando un po’ a fatica lo sguardo su Makoto. Aveva gli occhi un po’ lucidi.
    «Quindi rifiutami e andiamo avanti, ok? Promettimi solo che resteremo amiche...»
    Makoto aprì bocca per rispondere, ma non sapeva bene cosa dire, quindi la richiuse. Si chinò, poggiando le braccia sul tavolo e isolandosi per qualche istante.
    «Non c’è bisogno di pensare a un modo carino per farlo. Lo so già. Ti conosco.» mugugnò Kala, ma Makoto la bloccò sollevando una mano.
    «Dammi un momento. È complicato.» le disse, con un filo di voce. Kala trattenne il fiato.
    «… Ma in che senso?»
    Makoto fece un altro cenno, chiedendole tempo. Rimasero in silenzio per un po’, mentre Makoto metteva in ordine le idee.
    Quindi, Kala era interessata a lei in senso romantico. A saperlo, ripensando al tempo passato insieme, gli indizi c’erano eccome. Poteva arrivare a capirlo. Forse Eli l’aveva capito in quel modo. Ma Makoto non pensava a quelle cose. Era quello il problema. Makoto non si era mai soffermata a pensare a certi argomenti. Per questo Natsuki l’aveva sorpresa con la sua dichiarazione, e ora Kala ne aveva una tutta nuova. Makoto non sapeva bene cosa fare. Lanciò un’occhiata a Kala, studiandola. Non sapeva se ricambiava i suoi sentimenti, ma se ci pensava, alla ragazza associava solo un sacco di ricordi e sensazioni positive. Aveva sempre un buon profumo, mai troppo forte, cosa che il suo naso sensibile apprezzava. Amava gli animali e la natura. Rei e Minako erano affezionate a lei. Era… carina, così pensava Makoto se si sforzava di immaginarla in quel modo. Aveva la pelle morbida, l’aveva appena confermato dormendole addosso. Non era fondamentale, certo, ma era un piccolo plus, no? Infine, era sempre gentile. Le offriva sempre da mangiare. Makoto apprezzava chi le offriva da mangiare. Ed era vero che la conosceva meglio di chiunque altro.
    Fece una breve pausa, riempiendosi di nuovo il bicchiere e bevendo l’acqua che avrebbe voluto bere prima.
    In fondo aveva deciso di rischiare e di aprirsi ai Kuga. Sapeva che il calore della loro accoglienza non sarebbe mai stato forte come quello che avrebbe potuto darle sua madre… ma era comunque un calore sincero, e soprattutto reale. I Kuga erano brava gente. Non mentivano. Se ne sarebbe accorta, altrimenti. Non avevano doppi fini. E Kala… anche Kala era sincera. L’affetto che diceva di provare era vero. Poteva essere in grado di ricambiare? Non ne era sicura. Makoto non era una persona affettuosa, o almeno non credeva di esserlo. Ma era inutile negare che si era in qualche modo legata ad altri: Rei era stata la prima, insieme a Minako, ma anche Natsuki, Eli, Nozomi, la stessa Kala. Forse non era così impensabile.
    «Cosa succede se decido di provarci e scopro di non ricambiare i tuoi sentimenti?» le chiese all’improvviso, con un filo di voce, capo chino e mani giunte sul tavolo.
    «… Saresti davvero disposta a provarci?» chiese lei, incredula.
    «Perché no?» sospirò. «Sto provando molte cose nuove ultimamente. Però questa è...»
    «Complicata?» suggerì lei. Makoto annuì.
    «Tu mi conosci molto bene. Ma ci sono delle cose di me che non sai. Dei lati che...sopprimo da sempre. Che potrebbero ferirti, o peggio.»
    «Accetterei qualsiasi cosa, Makoto...»
    «Non puoi capirlo.»
    «… E se mi aiutassi a capire? Insomma...» Kala scivolò sulla panca, avvicinandosi a lei fino ad arrivare a toccarle una gamba con la propria. «Non ti forzerò a… a ricambiarmi. Ma se sei disposta a provarci, se davvero… se davvero tu volessi stare con me… sarei pronta a tutto pur di starti vicino.»
    Makoto rimase abbastanza colpita da quella affermazione. Non tanto da quello che aveva detto, erano cose che poteva aspettarsi, ma dalla sincerità con cui l’aveva detto. Non c’era malizia nel suo odore. Forse era qualcosa di ingenuo, ma sincero. Esitò, poi annuì. Kala sembrò scoppiare di felicità. Sorrise e trattenne a malapena una lacrima, probabilmente uno sfogo per tutta quella tensione. Makoto avrebbe voluto dirle altro, ma il cameriere bussò ancora per chiedere se volevano ordinare altro. Prima che Kala potesse rispondere, Makoto gli disse di no, e di portare il conto. Kala sembrava sorpresa, ma non disse nulla. Makoto fece per rimettersi la giacca, quindi Kala la imitò e iniziò a rivestirsi. Mentre finiva di rimettersi tutti i suoi strati, Makoto si scolò tutta l’acqua rimasta nella bottiglia, pur di avere qualcosa con cui occupare la mente. Di lì a breve, pagarono e uscirono fuori. Per le strade del Villaggio della Nuvola aveva cominciato a nevicare. Makoto sospirò, scocciata, ma fu comunque lieta di trovarsi fuori. L’aria calda e rilassata della saletta era diventata troppo calda e soffocante. L’aria fresca la faceva sentire più libera.
    Camminarono per un po’ in silenzio. Makoto era particolarmente in imbarazzo, ma non sentiva il bisogno di dire nulla. Avevano raggiunto una specie di accordo. Makoto… forse non era innamorata, forse non lo sarebbe mai stata, non come lo era Kala. Ma aveva deciso di darle e soprattutto di darsi una chance per trovare quel tipo di sentimenti. Era un grande passo avanti per una come lei. Kala invece era partita con l’idea di essere rifiutata, ma era tornata a casa con molto più di quanto avrebbe sperato. Makoto immaginava potesse essere soddisfatta anche lei.
    Camminarono in direzione dell’area residenziale dove vivevano entrambe. A un certo punto, Makoto notò come Kala si stesse alitando sulle mani per tenerle al caldo, quindi con un colpo di testa inaspettato anche per lei, allungò la mano e prese una delle sue. La cosa lasciò particolarmente scioccata Kala, che la guardò perplessa. Makoto distolse lo sguardo, percependo ancora quella orribile sensazione di accaldamento al volto.
    «’Mbeh? È così che si fa, no?» mugugnò. Sentì Kala ridacchiare, poi stringere la sua mano e riprendere a camminare, gongolando un po’. Makoto camminò col pilota automatico, e intanto rifletté sulla cosa. Di solito rifuggiva il contatto fisico, ma andando per gradi era una cosa più fattibile. E con Kala non era in fondo tanto male.
    Qualche minuto dopo arrivarono davanti a casa di Kala. Makoto la accompagnò lungo il vialetto, fino alla porta di casa. Kala infilò le chiavi, ma esitò prima di aprire la porta. Si voltò, guardando Makoto, e dopo essersi fatta coraggio, si allungò sulla punta dei piedi per posarle un bacino sulla guancia. Poi, quasi fuggendo, tornò ad armeggiare con le chiavi.
    Makoto ebbe solo qualche frazione di secondo per metabolizzare la cosa, ma superato lo shock iniziale, poggiò una mano sulla porta per impedirle di aprirla. Con l’altra mano la fece voltare e si chinò su di lei, cercando le sue labbra con le proprie. Fu un bacio piuttosto rapido, quasi sbrigativo. Makoto non sapeva come si faceva, letteralmente. Si ritrasse subito, ma la cosa sembrò comunque lasciare Kala abbastanza sconvolta.
    «Buonanotte.» le disse, senza pensarci troppo. Kala non dava segni di vita. Makoto si distrasse rapidamente, ripiegando le labbra verso l’interno della bocca e tastandole con la lingua.
    «Sai di salsa di soia.» commentò poi, molto intelligentemente. Kala rimase a fissarla scioccata per un paio di secondi buoni, poi finalmente si sbloccò. Sbuffò, divertita, poi scoppiò a ridere e quasi le saltò addosso, abbracciandola con forza. Ecco, quello era un contatto un po’ troppo prolungato per farla stare a suo agio, ma Kala non lo prolungò a molto. Strusciò il volto sul suo petto e la lasciò andare non appena sentì che si era irrigidita.
    «Buonanotte, Makoto.» le disse, e dopo averle rivolto un gran sorriso si infilò dentro casa, chiudendosi la porta alle spalle.
    Makoto si allontanò dalla porta, ma rimase ad aspettare finché non vide la luce nella finestra di Kala accendersi, e poi spegnersi dopo qualche minuto. Poi si mise sulla strada di casa. Si sentiva decisamente strana. Aveva la testa molto pesante ed estremamente leggera contemporaneamente.
    Sperava di trovare Eli sveglia. Conoscendola, probabilmente sarebbe rimasta in piedi ad aspettarla per cercare di capire com’era andata la serata. Tanto meglio. Aveva giusto due paroline che voleva dirle.
  5. .

    “Questa illusione fa vedere i desideri più reconditi di ogni persona, sai?”


    Un paio di occhi neri lo osservavano dall’oscurità. Erano socchiusi e trasmettevano una serie di emozioni: malizia, divertimento, arroganza. Sembravano gli occhi di un felino che giocava con la propria preda, prima di mangiarla. Solo che non c’era un topolino ad avere paura di quegli occhi. Katsuo Uzumaki era in qualche modo consapevole di essere lui, il topolino. Era al centro di una grande stanza, illuminata per metà dalla luce della Luna piena che filtrava dalla finestra alle sue spalle.
    «Chi sei?» chiese alla ragazza nascosta nell’oscurità.
    «Penso che tu lo sappia già.» rispose una voce femminile, ed effettivamente aveva ragione.
    Katsuo fece un sospiro esausto. Per qualche motivo si sentiva particolarmente a disagio, nonostante la figura fosse immobile. In attesa. Avrebbe potuto essere ansiogena, in un’altra situazione, ma non era dall’ansia che derivava il senso di scomodità di Katsuo.
    Una piccola fiamma si accese nell’oscurità. Illuminò il palmo della mano che la reggeva, e parte di un avambraccio nudo, dalla pelle chiara e morbida. La ragazza usò la fiammella per accendere una candela, poi la lasciò spegnere. Con la candela, iniziò ad accenderne altre, illuminando le parti buie della stanza e rivelando così la sua figura. Era più bassa di lui, con forme molto femminili e con i capelli di uno strano colorito bicromatico: scuri come la notte dietro, tinti del suo stesso rosso davanti. Sembrava indossare solamente una maglia scura, tanto lunga da rendere difficile capire se indossasse qualcosa sotto. Katsuo cercò in tutti i modi di non soffermarsi sulle sue gambe e cercò invece di guardare fuori dalla finestra, verso la Luna. Non era facile riuscire in quell’intento.
    «Perché sei venuta fin qui?» le chiese, cercando di nascondere l’imbarazzo, come se la concentrazione di sangue sul suo volto non lo tradisse senza pietà alcuna.
    «Lo chiedi a me? Sei tu che mi hai portato qui.» rispose Emma, guardandosi un po’ intorno con aria incuriosita. «Anche se scommetto di avere un paio di idee che potresti gradire. Immagino che anche tu ne abbia qualcuna, no?» aggiunse in direzione di Katsuo, socchiudendo gli occhi con un sorriso malizioso. Katsuo deglutì e scosse il capo. Il sorriso di Emma si allargò. Si avvicinò a lui, poggiandogli le mani sul petto. Erano calde e morbide, e Katsuo si sentì ancora più in imbarazzo per averlo notato. Emma doveva essersene accorta, perché ghignò con fare molto divertito.
    Un po’ a fatica, Katsuo sollevò le mani e le poggiò sulle sue spalle, facendo per allontanarla. Incrociò il suo sguardo e poi guardò altrove; non riusciva a sostenerlo.
    «Che c’è, non mi vuoi più ora?» chiese lei, con un tono triste e deluso palesemente falso. Katsuo tornò a guardarla, rigorosamente negli occhi, anche se con molta fatica.
    «Non è appropriato.» le rispose, facendo qualche passo indietro, verso la finestra, unica apparente via di fuga da quella stanza.
    «Quante stronzate. Non ti è dispiaciuto dare un’occhiata quando eravamo nell’Arena. O forse sei interessato solo a quello che ho sotto la maglietta?» disse lei, afferrandosi i lembi della maglia e iniziando a sollevarla lentamente. Katsuo quasi si gettò in avanti per afferrarle le mani e impedirle di svestirsi di più. Emma abbassò lo sguardo sulle mani e sorrise.
    «Ah, vuoi fare il romantico?» disse, ghignando, facendo scappare nuovamente Katsuo. Stavolta lo seguì alla luce della Luna e fu lei ad afferrargli le mani. Si mise in punta di piedi e, un po’ a fatica, si avvicinò al suo orecchio per sussurrarci dentro.
    «Andiamo, Katsuo Uzumaki. Lo so che c’è un fuoco dentro di te. Perché non lo lasci ardere? Sarebbe così male lasciar uscire il tuo vero te stesso, per una volta? Con me?»
    Si lasciò scivolare più in basso, poggiandosi contro di lui. Katsuo poteva sentire la sua morbidezza contro il suo petto, ma stavolta la ragazza non sembrava volersene approfittare. Piuttosto, lo guardò dal basso, sorridendogli con una strana dolcezza. Katsuo si perse per qualche istante nell’oscurità dei suoi occhi. Era davvero sbagliato quel che stava dicendo? Aveva già realizzato di avere un “fuoco dentro”, come lo definiva lei. Sentimenti di rabbia e desideri di distruzione, che soffocava tenendoli rinchiusi in una bolla d’acqua. Non era il tipo di persona che voleva essere, ma era inevitabile che ogni tanto la cosa sfuggisse al suo controllo. Era normale. Era parte di sé. Era sbagliato cercare di abbracciarla, invece di soffocarla continuamente? Emma era la prima ragazza a cui avesse pensato in quel modo, a causa della tecnica che aveva usato per mostrarsi nella sua interezza. Era così… sbagliata, per lui. Ma forse era proprio quello il bello. Inconsciamente, Emma era tutto il contrario delle donne che, finora, erano state importanti per lui. A prescindere dai sentimenti che poteva provare. Il senso di responsabilità di Annie. L’onore di Natsuki. La serietà di Chiasa. La gentilezza di Asami. Erano tutte qualità che apprezzava. Emma era tutto il contrario. Emma avrebbe potuto liberarlo da quei legami. Dalle catene che si era autoimposto. Non era quello che desiderava, aveva deciso da solo che tipo di persona voleva essere, ma forse lasciarsi andare ogni tanto non sarebbe stato tanto male…
    Si ritrovò, quasi inconsciamente, a stringerla a sé con un braccio, sorprendendo sé stesso quanto Emma.
    «Quanto coraggio, Kacchan.» commentò lei. Lui la ignorò e si chinò verso di lei, avvicinandosi alle sue labbra, socchiuse in un sorriso trionfante. Si mise in punta di piedi, avvicinandosi a sua volta.
    «Kacchan…»

    «Kacchan? Kacchan!»
    Katsuo si svegliò di soprassalto. Asami aveva aperto la porta di camera sua. Il sole era già alto e illuminava tutta la sua camera.
    «Come mai così in ritardo? La colazione è già pronta da un po’. Vuoi che te la metta da parte?»
    «No… no. Scendo tra un minuto.» mugugnò, la voce distorta dal sonno e dalla confusione.
    Mentre Asami si allontanava, Katsuo si mise a sedere e stropicciò la faccia con entrambe le mani.
    «Ancora a letto? Bella la vita, eh?»
    Katsuo sbuffò e sollevò lo sguardo su sua nonna. Lei abbassò un attimo gli occhi, poi tornò a guardarlo. Katsuo fece lo stesso, incuriosito da cosa avesse attirato il suo sguardo. Solo allora si rese conto che quello strano sogno aveva lasciato dei segni molto evidenti del suo stato mentale. Il sangue non si era concentrato solo sul suo volto. Con l’imbarazzo alle stelle e la voglia di sotterrarsi vivo anche, cercò di coprirsi come poteva.
    «Hah! Sono un medico e ho avuto una mezza dozzina di figli, credi di doverti nascondere da me?»
    «Nonna, sareste così gentile da concedermi un minuto per vestirmi? Scenderò a fare colazione il prima possibile.» abbaiò.
    «Bah! Sarebbe anche ora che cominciassi a usarlo, sai? Il Clan non si ripopolerà da solo.»
    «Nonna!»
    Chiasa alzò gli occhi al cielo e iniziò ad allontanarsi, lasciando la porta aperta, ma senza smettere di lamentarsi, ovviamente.
    «Questi giovani d’oggi. Così pudici e schizzinosi! Ancora a letto a vergognarsi... Quando avevo la tua età ero già sposata e Ozaru agitava già la sua spadina giocattolo...»
    Katsuo si alzò e andò a sbattere la porta per evitare di sentirla, ringhiando sommessamente e iniziando a vestirsi.
    «Di certo non con lei...»
    ...
    ... Eppure...
  6. .
    Erano passati pochi giorni da quando Natsuki le aveva chiesto di provare un nuovo tipo di allenamento. Makoto si era ormai trasferita in casa Kuga e aveva approfittato di quel cambiamento per rivisitare anche altri lati della sua vita. Tra i più banali c’era sicuramente la nuova acconciatura; aveva finalmente rinunciato a cercare di riportare ordine nel caos bruciacchiato che le aveva lasciato Izumi e se li era fatti tagliare da Eli. Anche le sue abitudini erano state un po’ modificate rispetto al passato. Se prima passava la maggior parte del tempo fuori casa, anche solo con la scusa di far passeggiare le donnole - Minako in particolare - la possibilità di sfruttare un giardino e un cagnolino giocoso per tenerla occupata le regalava un sacco di tempo libero in più. Anche per questo aveva potuto riflettere sulla richiesta di Natsuki.
    «Vedi, è da quando ho dovuto inseguire un tizio nel retroscena di un palco che mi sono resa conto che la velocità non è tutto.» spiegò alla ragazza. Certo, dire a una come Natsuki una cosa del genere era quasi una presa in giro, se ne rendeva conto, ma ci credeva veramente. Le aveva chiesto di accompagnarla in un certo luogo in modo da mostrarle quello che aveva pensato. L’aveva guidata fino alla zona del porto, dove avrebbero potuto esercitarsi in quello che aveva in mente. Si era fermata all’imboccatura di una strada particolarmente lunga e larga, generalmente affollata di bancarelle e gente che faceva acquisti. A quell’ora - subito dopo pranzo - era un po’ meno affollata, il che avrebbe abbassato la possibilità di incidenti. Makoto iniziò quindi a spiegare a Natsuki come da quel famoso inseguimento aveva avuto l’idea di rendere la propria corsa il più agile possibile, per evitare ogni tipo di ostacolo e provare così a correre senza lasciarsi fermare da nulla. Immaginò che il suo sentirsi “legnosa” e voler aumentare la propria agilità fosse in qualche modo risolvibile da quel tipo di allenamento, per questo decise di proporglielo e di accompagnarla quindi in quell’impresa.

    La prima cosa da fare, secondo Makoto, era capire quali erano effettivamente gli ostacoli peggiori che potessero pararsi di fronte a loro all’improvviso. Makoto iniziò ad esaminare la situazione, guardandosi intorno. Come prima cosa, saltò sul tetto più vicino e accucciandosi oltre il bordo, iniziò a cercare un percorso, spiegando a Natsuki il suo ragionamento. Indicò l’ingresso della via e una meta finale, alla fine del vialone. Era piuttosto semplice su una strada dritta, e dall’alto era facile intuire gli ostacoli. Quello principale erano le persone, ovviamente, che occupavano il centro del vialone. Immaginò quindi di correre velocemente, figurandosi all’inizio del percorso. Inizialmente, in quella sorta di simulazione mentale, restava spesso incastrata tra le persone. Dopo qualche tentativo, magari anche grazie all’aiuto di Natsuki, notò come in realtà la gente tendeva a muoversi secondo dei pattern. Tendeva a stare solo da un lato, fermandosi alle bancarelle, o a salutare qualcuno. Il centro della strada era la parte peggiore, dove i due flussi si scontravano. L’incrocio poco più avanti era un punto di crisi. Era… caotico, ma si poteva fare. Cominciò quindi a simulare un percorso, indicandolo col dito. Supponendo sempre una velocità elevata, Makoto scagliò la piccola Makoto immaginaria in mezzo alla folla, schivando le persone che si fermavano, magari saltando sui pali delle bancarelle più solide e poi saltando giù, insomma, con mosse del genere. Invitò Natsuki a immaginare lo stesso, poi decise di scendere in strada per visualizzare da un punto di vista più realistico il tutto.
    Ovviamente, camminare in mezzo alla gente era più complicato che immaginare la cosa. Provò a fare una corsetta breve, e si rese conto che il flusso di persone era molto più instabile da navigare di quanto avrebbe pensato, anche solo per la difficoltà di non vederlo nella sua interezza. In breve, decise di schivarlo del tutto e saltare invece dietro le bancarelle. Lì gli ostacoli erano diversi, ma almeno erano fermi. C’erano dei bidoni, delle casse di scorta, le insegne dei negozi. Era decisamente più navigabile, se si ignoravano le proteste dei commercianti - che comunque spesso si quietavano al notare il coprifronte legato attorno al suo collo, ma non esattamente facile. Alcuni degli ostacoli lasciavano poco spazio l’uno dall’altro, e l’ambiente relativamente chiuso le impediva di saltare agilmente. Imparare a saltare tra quegli ostacoli sarebbe stato un po’ più complesso, ma se non altro, ora che ci faceva caso, poteva pensare ad una strategia. Si fermò solo quando arrivò all’incrocio, e lì svoltò a destra, prendendo una stradina secondaria. Nei vicoli c’erano meno persone, ma la situazione degli ostacoli non era messa peggio. Alcuni locali mettevano comunque le loro insegne e in generale poteva trovare dei cassonetti o altre costruzioni simili, che impedivano di correre liberamente, almeno immaginando di muoversi a velocità elevata, come durante un inseguimento. L’idea per la fase successiva le venne proprio in quel momento, ma prima di proporla a Natsuki avrebbe dovuto attendere di essere raggiunta, ovviamente.
    Livello 1
    -- Velocità e Agilità aumentano di 2
    -- Occhio allenato: Il freerunner impara le basi della corsa a ostacoli. Riesce a individuare gli ostacoli sul suo percorso e gli appigli migliori per arrampicarsi. Inoltre, riesce a calcolare a colpo d’occhio il percorso migliore da fare per arrivare alla sua meta, purché sia a portata di vista o gli sia comunque conosciuta l’ubicazione.
  7. .
    Guarda quante nuove tecniche per Katsuo :ohoh:
  8. .
    Thunk. Thunk. Thunk.
    Sieghart si riscosse dal suo torpore al suono ritmico del martellare di suo padre. Era proprio bella, la fucina che aveva installato in giardino. A Sieghart piaceva molto sedersi sotto l’unico albero rimasto in giardino e guardare suo padre che si impegnava tanto nel creare delle armi. E poi, quella in particolare, era un’occasione speciale. Stava forgiando la sua prima spada! Sieghart era davvero felice di avere la sua prima arma, finalmente. Quale regalo migliore per il suo sesto compleanno? Ormai era grande ed era tempo che imparasse a brandirne una.
    Per coincidenza, quello era anche l’anniversario della morte di nonna Chiasa. Era successo quattro anni fa e Sieghart era troppo piccolo per ricordarlo. Lui aveva un vago ricordo di un litigio tra lei e suo padre, ma mamma Asami raccontava che la nonna aveva avuto un incidente, cadendo dalle scale una notte mentre andava a prendere da bere.
    Si rialzò spingendosi sul tronco dell’albero sotto il quale si era appisolato e si guardò intorno. Il giardino era molto bello, una volta, o almeno così raccontava Asami. Quando Chiasa aveva il tempo di gestirlo, la vegetazione era rigogliosa e nascondeva quasi del tutto le mura di cinta. Il ruscello che entrava attraverso una grata nelle mura era puro e limpido, riempiva lo stagno e usciva da un’altra grata dall’altra parte del muro. Da quando la nonna era morta, il giardino era andato un po’ in disuso. La maggior parte della vegetazione era seccata o era stata rimossa da suo padre, e dato che lo stagno veniva usato da suo padre per la forgiatura delle armi si era un po’ sporcato. Sieghart non ricordava neanche com’era una volta il giardino, anche se aveva la vaga sensazione di un sōzu che batteva ritmicamente ogni tanto. A lui piaceva la fucina. Era da quella che suo padre tirava fuori tutte quelle belle spade e asce, tutto il giorno, tutti i giorni. Sieghart aveva però la sensazione che ad Asami non piacesse.
    Con un sospiro, si allontanò e rientrò in casa, per andare a cercare sua madre. Aveva fame, voleva chiederle di prepararle uno spuntino.

    Thunk. Thunk. Thunk.
    Trovò sua madre all’interno del tempietto dedicato agli antenati all’interno della tenuta. Era in ginocchio davanti all’altare. Aveva offerto una ciotola di riso all’altare, e quando Sieghart entrò nella stanza, la donna stava suonando ritmicamente su un piccolo tamburello rituale. Sieghart aveva davvero fame, quindi si avvicinò. Asami lo sentì e voltò il capo. Non appena notò il bambino, la donna si affrettò ad asciugarsi le lacrime dal volto con la lunga manica del suo kimono elegante. Sieghart la guardò con la fronte corrugata, quindi le si avvicinò e si inginocchiò davanti a lei. Era più una imitazione che una vera partecipazione al rituale. Lui non ricordava nemmeno la nonna, figurarsi se le mancava. Suo padre ne parlava sempre male, diceva sempre un sacco di parolacce quando parlava di lei e affermava che aveva campato pure troppo. Asami rimaneva sempre in silenzio quando Siegward cominciava con quegli sfoghi, ma ogni tanto Sieghart notava come gli lanciasse qualche occhiataccia arrabbiata mentre lui non guardava.
    Asami lo abbracciò in silenzio. Rimasero in quel modo per moltissimo tempo, poi finalmente Asami finì di recitare le sue preghiere silenziose e fece per rialzarsi. Sieghart la imitò, ma non quando lei si inchinò profondamente vicino all’altare. Infine, la donna accese un bastoncino d’incenso davanti all’altare e finalmente si voltò e si allontanò, prendendo per mano il piccolo Sieghart.
    «Ho fame.» si lamentò finalmente il piccolo. Asami sorrise e mugugnò qualcosa sull’andargli a preparare da mangiare. Sieghart notò come il sorriso non si espandesse fino ai suoi occhi ma si fermasse agli angoli delle sue labbra.

    Thunk. Thunk. Thunk.
    Sieghart aveva finalmente ricevuto il suo regalo di compleanno. Era ormai qualche mese che impugnava quella spada, ma ancora non riusciva a muoverla velocemente come voleva. Stava martoriando quel povero albero nel tentativo di allenarsi un pochino. Aveva tutte le mani e le gambe fasciate, perché quando la spada gli sfuggiva finiva sempre col tirarsela addosso e tagliarsi. Asami non era mai contenta quando succedeva. Aveva litigato un sacco di volte con Siegward, ma lui finiva sempre con l’arrabbiarsi e urlarle addosso fino a zittirla. Il piccolo Sieghart non capiva. Suo papà era sempre arrabbiato, ultimamente. A cena non parlavano più. Lui si limitava a mangiare e bere vino, tanto vino. Asami se ne andava sempre prima della fine della cena e li lasciava da soli. Quando succedeva, a Siegward piaceva parlare di casa sua. Un posto lontano, a est, pieno di alberi altissimi, insenature rocciose, guerrieri possenti che guidavano velocissime navi. Sieghart ascoltava con interesse, anche se non gli era mai permesso fare domande, altrimenti gli toccava uno schiaffo e qualche urla. Era la giusta punizione per aver interrotto papà.

    Thunk. Thunk. Thunk.
    Siegward bussò tre volte alla porta del magazzino. Era notte fonda. Ultimamente Siegward si allontanava spesso di nascosto, di notte. Sieghart lo vedeva sempre dalla finestra. Quella sera, per pura coincidenza, Sieghart stava andando al bagno e incrociò suo padre incappucciato che si allontanava di nascosto. Siegward si era affrettato a dirgli di stare zitto e dissimulando una certa sicurezza, gli disse che stava proprio venendo a chiamarlo. Sieghart non era stupido. Era cresciuto, ormai. Aveva quattordici anni. Era diventato persino più alto di suo padre, e di sicuro più forte di lui. A volte gli sembrava che suo padre avesse paura di lui. Ma che motivo doveva avere per farlo? Era suo padre, era sicuramente fortissimo e Sieghart lo rispettava. Per quello storse il naso quando Siegward affermò di volerlo coinvolgere. Fu per pura curiosità che andò a vestirsi e decise di seguirlo in silenzio.
    Erano andati lontano da casa, fino alla periferia del Villaggio della Nebbia. E ora si trovavano davanti a quella strana porta. Siegward aveva bussato. Una voce roca gli chiese qualcosa in una lingua che Sieghart non riusciva a capire. Siegward rispose con una singola parola in quella lingua. Una specie di parola d’ordine. La porta si aprì.
    L’edificio sembrava una specie di taverna, anche se molto poco allegra. C’era un grande tavolo e attorno a quello c’erano molti uomini, tutti grandi, grossi, pelosi e muscolosi. Qualcuno aveva i capelli rossi come lui. Tutti avevano un boccale di birra o chissà che altro alcolico accanto. L’odore non era dei migliori, ma gli uomini accolsero Siegward con allegria, invitandolo a sedersi. Siegward rispose, quindi indicò Sieghart. Finalmente prese a parlare nella lingua comune, spiegando che lui era suo figlio e che voleva entrare nel giro. Anche gli altri uomini iniziarono a parlare nella sua lingua e lo accolsero quasi come un vecchio amico, presentandosi a turno.

    THUNK. THUNK. THUNK.
    Sieghart era cresciuto molto. Ormai aveva sedici anni e aveva superato di gran lunga suo padre in altezza. In quel villaggio però non era neanche il più alto. Era ormai da qualche mese che si erano trasferiti lì. Erano partiti di nascosto, senza dire nulla ad Asami. Siegward voleva mostrargli la sua vera casa. E la sua vera casa era un villaggio costiero accanto ad una foresta, in una terra lontana, più a est del Paese dell’Acqua. E da qualche giorno ormai il villaggio era perennemente disturbato dal martellare ritmico. C’erano forge accese tutto il giorno e i fabbri martellavano senza sosta. I taglialegna colpivano ritmicamente gli alberi della vicina foresta. I carpentieri inchiodavano le assi. Stavano forgiando armi da guerra e stavano costruendo delle lunghe navi. Siegward era molto soddisfatto. Aveva fatto forgiare una nuova arma per lui, sequestrando la spada che gli aveva forgiato e gettandola in mare. Gli aveva messo in mano un enorme martello da guerra. Diceva che era uno spreco non sfruttare la potenza dei muscoli che era riuscito a mettere su crescendo. Diceva di prepararsi, perché presto sarebbe stato tempo di guerra e sarebbe stato il caso di farsi trovare pronto.

    THUNK. THUNK. THUNK.
    Sieghart stava suonando un enorme tamburo, ritmicamente. L’avevano messo sulla poppa di quella lunga nave piena di guerrieri che stavano remando al ritmo che lui imponeva. Era un grande onore che gli avevano concesso. Accanto a lui, da entrambi i lati, decine di altre navi piene di guerrieri suonavano tamburi e remavano allo stesso ritmo. Davanti a loro, l’ammiraglia dava il ritmo a tutte. Quando l’ammiraglia aumentò il ritmo perché aveva visto terra, tutte le navi cominciarono a remare più velocemente. Sieghart fu ben lieto di fare lo stesso. Non vedeva l’ora di approdare nel Paese dell’Acqua. Voleva testare sul campo il suo martello da guerra.

    THUNK. THUNK. THUNK.
    La prima razzia era andata decisamente bene. Il villaggio non era minimamente difeso. C’erano solo pescatori e contadini. Era stato facile ucciderli tutti. Sieghart e Siegward erano in attesa che i guerrieri davanti a loro finissero di sfondare a colpi di ascia le porte del grande magazzino nel quale si erano barricati gli ultimi sopravvissuti. Non appena il legno iniziò a cedere, Sieghart afferrò saldamente il suo martello sporco di sangue. Poteva ancora brillare, per quella sera.

    THUNK. THUNK. THUNK.
    Le razzie erano state un enorme successo. Erano stati rapidi e silenziosi, le loro scorribande erano riuscite a passare inosservate per un bel po’. Quando i ninja della Nebbia si erano accorti della presenza di quegli intrusi era ormai troppo tardi, e l’intera tribù si era schierata fuori dalle mura del Villaggio. Ognuno stava battendo a terra il piede o un’estremità della propria arma, ritmicamente. Si preparavano all’assalto finale, mentre i ninja avevano dovuto nascondersi all’interno delle mura. Erano pronti come non mai. Ben presto il capo suonò il corno e diede il via alla carica. Sieghart era in prima linea, bramoso di sangue.

    THUNK. THUNK. THUNK.
    I ninja erano molto forti, ma non erano stati una grande sfida per l’intera tribù unita. Ormai gli ultimi ninja si erano dovuti rinchiudere all’interno del Palazzo della Mizukage. A Sieghart era stato concesso l’onore di essere il primo a sfondare al suo interno. Era proprio lui il loro ariete, col suo grande martello da guerra che colpiva ritmicamente il grande portone rinforzato. Ormai aveva quasi ceduto. Pochi colpi dopo, avevano aperto un varco, e con una grande carica da parte della tribù, le porte si spalancarono travolgendo le barricate che erano state poste all’interno. Dentro l’edificio, una manciata di ninja preparava la sua ultima difesa. Per un attimo i due schieramenti si fermarono uno di fronte all’altro. Sieghart esaminò le persone che componevano quello nemico. C’era un ninja coi capelli rosa dall’aria molto giovane; un altro, biondo e con una buffa lumachina sulla spalla, aveva un’aria particolarmente agguerrita; uno di loro aveva gli occhiali e l’aria di uno che era quasi finito lì per sbaglio; una donna priva di un occhio sembrava pronta ad estrarre la katana alla prima avvisaglia di battaglia; infine, sua madre affiancava un’altra donna dai capelli rossi. Quest’ultima era chiaramente la leader: era un passo davanti a tutti, come se volesse proteggerli, e la sua aria furiosa non sembrava presagire nulla di buono.
    Sieghart ghignò maligno. Lo schieramento finalmente si mosse, e lui proprio lui a guidare la carica, sollevando il martello e preparandosi ad abbatterlo sulla donna dai capelli rossi.

    *


    Thunk. Thunk. Thunk.
    «È pronta la cena, se hai finito di perdere tempo a dormire.»
    «Come?»
    Katsuo si era addormentato in giardino. Era seduto su una roccia accanto allo stagno, in posa da meditazione, anche se era finito con lo scivolare di lato e cadere giù di fianco. Il ruscello scorreva placido e pulito accanto alla sua faccia. Il sōzu batteva ritmicamente, come sempre, ogni volta che la canna di bambù si riempiva abbastanza da farlo cadere e svuotare. Katsuo rimase ad osservarlo stupidamente per qualche istante, prima di rialzarsi tutto indolenzito. Spostò lo sguardo su sua nonna, che appoggiata al suo bastone da passeggio lo guardava con sguardo carico di giudizio in attesa che si ridesse un contegno.
    Katsuo sospirò, si ripulì dalla terra e si diresse verso casa.
    Sua nonna lo guardò particolarmente stranita mentre lui si avvicinava a lei. In silenzio, il ragazzo la strinse tra le sue braccia per qualche istante, prima di lasciarla andare e superarla, entrando in casa. Chiasa rimase particolarmente stupita, tanto che ci mise qualche secondo per capire cos’era successo. Quel tipo di dimostrazione d’affetto decisamente non era la norma in quella casa, se non da parte di Asami, che era l’eccezione. Perplessa, Chiasa lanciò un’occhiata alla roccia dove Katsuo era seduto e al sōzu che continuava a battere. Alla fine, alzò le spalle rinunciando a capire e seguendo il nipote dentro casa.
    La persona mancante è ovviamente nonna Chiasa. Il concetto su cui mi volevo basare è che Katsuo ha subito due grandi influenze negative nella sua infanzia, ma proprio grazie allo strano equilibrio tra le due ha potuto staccarsene e diventare la persona che voleva lui, prendendo il meglio da entrambe le parti. In mancanza di una delle due parti, l'equilibrio viene meno e Katsuo finisce per essere fortemente influenzato da una delle due, diventando una persona diversa e che, decisamente, non vuole essere.
  9. .
    Non poteva andare di certo tutto bene. Ovviamente doveva succedere un altro incidente prima che riuscissero a proseguire. In realtà Makoto iniziò presto a chiedersi quando effettivamente qualcosa sarebbe andata nel verso giusto.
    Mentre passava accanto alla porta, più cautamente possibile ma senza sprecare chakra, la porta si aprì e mentre Makoto si metteva in posa di combattimento, la persona che l'aveva aperta lasciò cadere delle boccette che stava trasportando. Immediatamente le sue narici furono invase da un terribile odore, così intenso da costringerla a portare un braccio davanti al volto per cercare di coprirsi. Rei reagì in maniera anche peggiore, e mentre Makoto tratteneva un conato di vomito la donnola uscì dal suo nascondiglio e scappò, allontanandosi dall'odore. Se non altro, i due uomini ebbero la decenza di cadere a terra, anche se per motivi non esattamente chiari. Forse non avevano il fisico per reggere quell'odore tanto intenso, ma non serviva a quello la tuta?
    «E state attenti, cazzo!» sbuffò, sfogandosi sull'uomo che aveva fatto cadere le due boccette tirandogli un calcetto ma stando attenta a non toccare il liquido caduto né a passarci sopra, ma soprattutto a respirare il meno possibile da quello schifo. Non sapeva un accidenti di chimica e non sapeva né riconoscere il composto né tanto meno sapere se poteva creare dei problemi. Andò quindi a recuperare Rei e la nascose nuovamente in mezzo ai vestiti, in modo che fosse protetta il più possibile dall'odore e superò finalmente la zona dell'incidente, procedendo lungo le scale, ancora più cautamente di prima, anche e soprattutto per il giramento di testa dato dall'aver inalato quell'odore tanto fastidioso.
    Ovviamente, alla fine delle scale c'erano ben quattro guardie pronte a sbarrare loro la strada. Due di loro erano armate di coltelli e li agitavano in modo davvero incapace, uno di loro aveva una vecchia katana e l'ultimo era invece quello che sembrava più preparato. Ringhiando di frustrazione, Makoto saltò all'indietro, lontano dalla portata dei coltelli, pronta a difendersi anche dagli altri. Lasciò a Natsuki lo spadaccino e si occupò dell'uomo che la attaccò con un calcio che conosceva anche lei. Era chiaramente molto più forte degli altri, ma Makoto stabilì che non era per niente una minaccia per loro. Il lato positivo di farsi umiliare combattendo contro Natsuki era che tutti gli altri sembravano muoversi al rallentatore. Makoto cercò di evitare il calcio scartando di lato grazie alla sua agilità superiore; cercò di spostarsi sul lato esterno del corpo dell'avversario e contemporaneamente impugnò il tetsubo, facendolo oscillare dal basso verso l'alto all'indietro e continuando la rotazione dall'alto verso il basso dritto sul ginocchio dell'avversario, o in alternativa su qualsiasi parte della sua gamba riuscisse a tenere nella propria portata. Era una mossa difficile che richiedeva un certo anticipo, ma l'avversario si muoveva molto lentamente rispetto a quello che lei riusciva a fare, quindi non era del tutto impossibile.
    «Fan-culo!» avrebbe ringhiato mentre abbassava il tetsubo, per sfogare la sua frustrazione.
    «Rei! Distraili!» avrebbe aggiunto dopo la mossa, allungando il braccio per lanciare la donnola verso le gambe dei due armati di coltello. La donnola avrebbe cercato di correre sotto le gambe dei due avversari, passando in mezzo ai due con un percorso casuale e imprevedibile per confonderli il più possibile. Il piano di Makoto era di tenerli impegnati per qualche istante. Rei era fuori dalla portata ottimale dei loro due coltelli e costringendoli a chinarsi avrebbe fatto perdere loro tempo prezioso. Con un po' di fortuna si sarebbero accoltellati a vicenda.
    Tornando al suo avversario, che riuscisse o meno a colpirlo col tetsubo, avrebbe mollato temporaneamente l'arma per cercare di afferrare di peso l'uomo e dopo una rotazione su sé stessa per guadagnare momentum, avrebbe cercato di lanciarlo letteralmente contro i due armati di coltello.
    «Levatevi dal cazzo, perdite di tempo!» avrebbe aggiunto, per mostrare al mondo quanto fosse nervosa e infastidita in caso qualcuno avesse ancora qualche dubbio.
    CITAZIONE
    - Makoto cerca di schivare i coltellini saltando all'indietro (Agilità 70)
    - Makoto cerca di schivare l'Entrata Dinamica scartando di lato (Agilità 70) e contemporaneamente di colpire col tetsubo la gamba del nemico (Agilità 70, Forza 82)
    - Rei corre sul braccio libero di Makoto verso i due armati di coltelli (Velocità 46) e cerca di distrarli correndo tra le loro gambe e cercando di schivare i loro attacchi (Agilità 44)
    - Contemporaneamente al diversivo di Rei, Makoto lascia andare il tetsubo per cercare di afferrare il nemico vicino (quello dell'Entrata Dinamica) e di lanciarlo verso i due col coltello (Agilità 70, Forza 42, peso sollevabile 84kg)

    Makoto
    STATS/ARMIJUTSU/CHAKRASTATO/FERITE
    LIVELLO:
    Forza:
    Resistenza:
    Velocità:
    Agilità:
    Precisione:
    Riflessi:
    10
    42
    34
    40
    70
    24
    65

    Post:
    1° (secondo combattimento)
    Potenziamenti:
    - Ladro VIII (+16 Agilità/+16 Riflessi)
    - Affinità animale III (+15 Riflessi)
    - Olfatto 80m
    Armi:
    - Kunai x9 [Contenuti nella sacca]
    - Shuriken x9 [Contenuti nella sacca]
    - Tekkou del discepolo con Lama retrattile [Indossati sull'avambraccio sinistro]
    - Lama uncinata [Indossata sull'avambraccio destro]
    - Manrikigusari (acciaio)
    - Tetsubo (titanio) [Contenuto nel rotolo maggiore]
    - Kyodai Sensu (titanio) [Contenuto nel rotolo maggiore]
    - Kusarigama (titanio) [Contenuto nel rotolo da polso]

    339/400
    (-10 Evocazione tetsubo dal rotolo)
    (-1 Camminare in verticale)
    (-30 Danza Distruttiva)
    (-20 Come una foglia che scivola)
    Ferite:
    - Contusione ad entrambe le braccia [Moderata]
    Stato Fisico:
    Ok (84.75%)
    Stato Mentale:
    Ansiosa e irritata



    Rei
    STATS/ARMIJUTSU/CHAKRASTATO/FERITE
    LIVELLO:
    Forza:
    Resistenza:
    Velocità:
    Agilità:
    Precisione:
    Riflessi:
    10
    32
    40
    46
    44
    23
    41

    Post:
    1° (secondo combattimento)
    Potenziamenti:
    ---
    Armi:
    - Kunai x1
    400/400
    ---
    Ferite:
    ---
    Stato Fisico:
    Ok (100.00%)
    Stato Mentale:
    Preoccupata

  10. .
    Zona portuale del Villaggio della Nuvola, dicembre 216

    Hachi era una persona solare e allegra. Era felice, e aveva ragione di esserlo. La sua vita era esattamente quella che voleva lui. Era uno Special Jonin del Villaggio della Nuvola e adorava viaggiare. Passava quasi tutto il suo tempo fuori dal Paese e si soffermava ogni volta che poteva, visitando sempre posti nuovi. Era bello tornare alla Nuvola una volta ogni tanto, ma in generale non si fermava mai troppo a lungo. Quella sera era un’eccezione. Era quasi il periodo di Natale, e lui era appena tornato via nave da una lunga missione all’estero. I suoi compagni avevano preferito chiudersi in taverna a mangiare un pasto al caldo, ma lui aveva preferito prendere dei takoyaki da asporto e mangiarli passeggiando. La zona del mercato era adorabile in quel periodo dell’anno. Le bancarelle restavano aperte fino a tardi, attirando clienti di ogni tipo. La maggior parte erano famigliole con bambini. Aveva un debole, per i bambini. Erano divertente interagire con loro. Erano innocenti e pieni di fantasia. Lo riempivano sempre di speranza. Erano il futuro del Paese del Fulmine. Avrebbe adorato mettere su famiglia e averne uno suo, un giorno, ma con il suo lavoro e la sua attitudine al viaggio non era davvero il caso; in più, era una frana con le donne. Il suo carisma era sottozero e si imbarazzava sempre così tanto da rovinare i pochi appuntamenti che riusciva ad ottenere.
    Si soffermò su una panchina. Era ignorata nonostante la folla perché era metallica e faceva troppo freddo, ma lui era abituato a ben di peggio. Si gustò i suoi takoyaki in pace, osservando la gente. Le luci, le campanelle, le risate dei bimbi e il suono dei caroselli. Era tutto estremamente affascinante, quasi magico.
    Non per tutti, però. Nella folla, intravide una ragazzina non accompagnata. Era bassina e molto magra, quasi denutrita e vestita di stracci. I lunghi capelli castani erano sporchi e i suoi occhi azzurri lasciavano trasparire una certa tristezza. Immediatamente ebbe l’istinto di alzarsi, di offrirle da mangiare e magari portarla in un negozio di abiti perché scegliesse qualcosa di più caldo, ma si rese conto subito dopo che forse non ne aveva tanto bisogno. La ragazzina si stava guardando intorno con aria circospetta. Non sembrò notare lui che la stava guardando. Sembrava che nessun altro la stesse notando e lei ne sembrava convinta, date le sue azioni successive. Si immerse nella folla dopo aver scelto un bersaglio e sfilò qualche monetina dal borsello di un signore dall’aria distinta. Hachi sollevò un sopracciglio. Stranamente, rimase particolarmente ammirato dai suoi movimenti. Era stata rapida e precisa. Come una donnola, si ritrovò a pensare ridacchiando. Nulla a che vedere con un anche il più scarso tra i ninja, ma per una persona comune era notevole. Poteva essere un buon inizio.
    Normalmente non tollerava il crimine, ma non gli erano sfuggiti alcuni dettagli. Tipo il fatto che la ragazza avrebbe potuto semplicemente rubare tutto il borsello e avere vita più facile invece di sfilare solo qualche monetina. Incuriosito, si alzò e la seguì da una certa distanza per osservare come continuava la cosa. La ragazza donnola sfilò qualche altra monetina, scegliendo sempre bersagli dall’aria facoltosa. Quando raccolse un piccolo gruzzoletto, invece di andarli a spendere in cose illegali o portarli a un capo come succedeva la maggior parte delle volte in quei casi, si limitò a comprarsi del cibo. A quel punto Hachi era sicuro di volerla aiutare e iniziò a studiare un piano per avvicinarla senza farla spaventare.
    «Sei ancora lì a mangiare? È arrivata una comunicazione di Kyomaru, il Raikage vuole vederci subito. Che ne dici di alzare il culo?»
    Hachi sbuffò infastidito verso il proprio compagno che stringeva tra le mani un rotolo appena aperto. Lanciò un’ultima occhiata verso la ragazzina e sospirò affranto.
    «Tornerò a prenderti, ragazza donnola. Aspettami, ok? Non metterti nei guai.» mugugnò tra sé, incamminandosi insieme al compagno.
    «Non fare lo schifoso.» lo rimbrottò lui, tirandogli un pugno sulla spalla.
    «Ahia! Ma che hai capito?!»
    Sarebbe tornato, si ripromise. Appena finito il rapporto al Raikage, o di ritorno dalla prossima missione. Non appena avesse avuto il tempo. Sicuramente sarebbe tornato.
    Ma Hachi era una persona impegnata e quando qualcuno vive per strada è difficile restare fuori dai guai a lungo. Makoto rimase da sola per molto tempo ancora...


    Zona portuale del Villaggio della Nuvola, marzo 217

    Makoto si rallegrava sempre quando arrivava la primavera. Il mondo si scaldava e sotto il suo ponte si dormiva meglio. D’inverno a volte era costretta a lavarsi con la neve e si ritrovava sempre col raffreddore. Solo recentemente aveva scoperto che poteva affittare un bagno nelle taverne in giro, ma era difficile guadagnare abbastanza per poterselo permettere. Aveva paura che rubando troppo sarebbe stata notata. Preferiva volare basso e stare tranquilla. Poteva sopravvivere agli inverni anche solo con la speranza di vedere la primavera. Quando l’acqua dei fiumi che arrivavano dalle montagne si sgelava. Nelle giornate particolarmente soleggiate diventava quasi tiepida. Era davvero splendido.
    Era particolarmente allegra, quella giornata, il che era piuttosto raro. Oltre a un bel bagno tiepido e dei vestiti puliti, si era concessa un po’ di pane fresco e del latte. Era da mesi che non si sentiva così sazia. Era ancora pomeriggio e si stava giusto chiedendo se poteva rubacchiare qualcosina al porto prima che facesse buio e cominciasse a girare gente poco raccomandabile. Si infilò in un vicolo per prendere una scorciatoia e lo attraversò a metà prima che un uomo alto e smilzo si infilasse nello stesso, in direzione opposta alla sua. Makoto lo riconobbe subito. Era uno spacciatore del porto, uno che lavorava per un capo del crimine piuttosto celebre. Un tizio da evitare a tutti i costi, per una come lei. Sembrava piuttosto di fretta e stava attraversando il vicolo a grandi falcate. Makoto ebbe l’istinto di voltarsi e correre via, ma temeva che la cosa l’avrebbe infastidito e preferiva non irritarlo. Si spostò di lato e si fece piccola piccola, sperando che la ignorasse. Ma l’uomo si spostò all’ultimo momento e andò a sbatterle contro apposta, con tanta energia da buttarla a terra - non che ci volesse molto, magra com’era. Makoto temeva che avrebbe usato la scusa per attaccare briga, ma in realtà la superò subito dopo e riprese a muoversi rapidamente. Il motivo, Makoto lo scoprì poco dopo. Due poliziotti fecero la loro comparsa nel vicolo e presero a corrergli dietro. Solo uno dei due si fermò a chiederle se stesse bene. Makoto di certo non aveva intenzione di farsi notare dalla polizia quindi si limitò ad annuire. Fortunatamente, il poliziotto aveva faccende ben più pressanti di cui occuparsi e la abbandonò al suo destino. Makoto si rialzò e iniziò a correre con tutte le forze che aveva in corpo.
    Si fermò solo quando era molto, molto lontana, nel suo rifugio sotto il suo bel ponte di pietra scaldato dal sole. Si infilò nel suo sacco a pelo, tremante nonostante facesse abbastanza caldo, e cercò di realizzare cos’era appena successo, cercando di calmare il fiatone. Si sentiva terrorizzata per non sapeva bene quale motivo. O meglio, aveva qualche idea. Aveva appena avuto un incontro ravvicinato con uno scagnozzo di un signore del crimine e con un poliziotto. Erano entrambe fazioni con cui non voleva avere nulla a che fare. Non voleva finire invischiata nelle faccende del primo e ancora meno voleva rischiare di finire in galera. La sola idea di ritrovarsi in una stanza chiusa da delle sbarre la faceva star male. Sarebbe stato come tornare in quello schifo di orfanotrofio, ma con altri criminali al posto dei bambini e dei poliziotti armati al posto delle badanti. Sentiva il petto stretto da una morsa d’acciaio e faceva fatica a respirare. Si ritrovò a piangere come non aveva mai fatto in vita sua, cosa che le rese la respirazione ancora più problematica. Di lì a poco ebbe un conato di vomito e si sforzò almeno di vomitare fuori dal rifugio. Tanti cari saluti al latte caldo che tanto l’aveva rallegrata poco prima.
    Passarono diverse ore prima che si calmasse abbastanza da riuscire a pensare. Era ormai notte fonda e non era il caso di tornare in città, col rischio di incontrare persone ancora peggiori. Tornò nel sacco a pelo e cercò di dormire.

    Il giorno dopo, stava un po’ meglio. Era di certo ancora turbata per il malessere del giorno prima, ma si sentiva più lucida. Il relativo buonumore durò molto poco, purtroppo. Mentre si cambiava gli abiti per mettersi degli stracci più puliti e che non sapevano di vomito, qualcosa cadde da una delle tasche. Era un pacchetto trasparente che conteneva una polverina bianca che di certo non era farina. Imprecando stretta tra i denti, Makoto poté rivedere quasi al rallentatore la scena del giorno prima, con quel pezzo di merda che le infilava in tasca la patata bollente per non farsi beccare dalla polizia. Irritata, si rivestì e tornò verso il centro, pensando ad un modo per non liberarsi di quella bomba ad orologeria senza finire nei guai. Alla fine non le venne in mente nessuna idea migliore del lanciarla su una nave in partenza mentre nessuno la guardava, poi fuggì via.
    Per qualche giorno evitò il porto per non incappare nello stronzo che l’aveva incastrata in quel modo, muovendosi cautamente ed evitare le zone in cui l’aveva già visto. La sua dieta ne risentì un bel po’ - non era facile procurarsi dei soldi in zone meno affollate - ma ne valeva la pena per tenersi la pellaccia. Purtroppo non servì a molto, e una settimana dopo si ritrovò lo stronzo a rovistare nel suo rifugio come un procione in un bidone dei rifiuti. Non fece in tempo a fuggire via, perché l’uomo l’aveva notata e con una velocità che non si sarebbe aspettata la agguantò per un polso e la sollevò da terra per portare il volto vicino al suo. Era palesemente furente, con gli occhi fuori dalle orbite.
    «Dove l’hai messa, piccola stronza?»
    «Non so di cosa parli.» ringhiò lei in risposta. Purtroppo l’uomo non la prese bene per nulla e la colpì con un pugno allo stomaco.
    «L’hai venduta tu, vero? Ti sei fatta un bel gruzzoletto, scommetto. Oppure te la sei sniffata tu, vero stronzetta? Ti sei divertita?» insistette lui, agitandola dal polso. Makoto stava praticamente ringhiando di dolore. I tendini le facevano male e sentiva che rischiava di lussarsi la spalla da un momento all’altro.
    «Non la voglio la tua merda e i tuoi soldi del cazzo, me ne sono liberata.» disse, sputandogli in faccia e cercando di calciarlo via. Riuscì in qualche modo a divincolarsi, ma prima che potesse fuggire l’uomo la afferrò per i capelli e la tirò a sé. Le acchiappò anche un polso e glielo torse dietro la schiena, portando la bocca vicino all’orecchio.
    «L’hai persa, piccola stronza?» disse, con tono di voce più basso ma palesemente più furente. «E ora glielo spieghi tu al mio cazzo di capo? Quello mi taglia le palle e me le fa ingoiare se lo scopre. Dammi un buon motivo per cui non dovrei sgozzarti in questo momento e togliermi il pensiero.»
    Makoto cercò di divincolarsi, a quel punto con gli occhi pieni di lacrime, lacrime di dolore, frustrazione e rabbia. Voleva ribellarsi, ma non aveva abbastanza forza per fare nulla e l’uomo la teneva fin troppo stretta.
    «Non ti farà ricrescere le palle.» gli disse tra i denti, con la voce spezzata.
    «Ah, ora piangi come una mocciosa, piccola stronza? Mi pare un po’ tardi per i rimpianti, che dici? Mi devi dei soldi, come hai intenzione di ripagarmi?»
    «Fottit-AGH!» Makoto cercò di divincolarsi ancora, ma l’uomo la tirò per i capelli, tanto forte da farla piangere davvero.
    «Magari alla prossima incursione di quei barbari del cazzo ti vendo a loro, che dici? Lo sai cosa fanno alle mocciose come te, vero? Altrimenti cosa? Lo so che sai rubare, ma sei una ladra da due soldi, ci metteresti anni a ridarmi i miei soldi. Però la gente ti ignora, certo, a nessuno frega un cazzo della piccola stronza stracciona. Perfetto. Facciamo che lavori per me finché ripaghi il tuo debito. Ti va di lusso così, piccola stronza.»
    L’uomo sembrava quasi folle nel suo modo di parlare e trasudava violenza. Makoto era terrorizzata, ma era da anni che cercava di non farsi invischiare con quella gente di merda.
    «Fanculo!» gli ringhiò, ormai in lacrime. L’uomo le strinse il polso con ancora più forza. Makoto era sicura che gliel’avrebbe spezzato.
    «Ti pare di avere scelta, piccola stronza?»
    Makoto avrebbe voluto urlare, scalciare, liberarsi e fuggire, ma non poteva farlo. Un’altra parte di lei prese il sopravvento su di lei. Era la parte più selvaggia, più istintiva e animale di lei. E paradossalmente, le fece chinare il capo. Per la prima volta nella sua vita doveva arrendersi. Era una merda tornare a una vita di costrizione, ma non aveva scelta. O quello, o morire. Chinare il capo era l’unico modo per sopravvivere. Sopravvivere e combattere un altro giorno.


    Rifugio di Makoto, 17 maggio 217

    «Non ho più intenzione di fare il cane da riporto per te, Jun.» si ribellò Makoto, ringhiando contro l’uomo. «Ho ripagato il mio debito, quindi levati dal cazzo.»
    «Credi che ci sia un’uscita da ‘sto tunnel, piccola stronza? Pensi che non l’avevo già presa, se c’era? Continuerai a lavorare per me finché cazzo avrò voglia io.»
    Makoto non ne poteva più. Negli ultimi due mesi aveva lavorato tutti i giorni per quel gran pezzo di merda di spacciatore senza guadagnare uno straccio di nulla. Lui fingeva di pagarla, ma era una miseria. Non aveva più il tempo di rubare nelle tasche della gente e non poteva rischiare troppo di farsi scoprire ora che doveva trasportare merci ben più scottanti. Se non altro, aveva scoperto di avere un talento naturale. Nonostante i dolorosi lividi che puntualmente le venivano inferti da Jun, il suo fisico si era sviluppato parecchio negli ultimi mesi. Certo, aveva fatto molta più “attività fisica” di quanto ne avesse mai fatta in vita sua: fuggire dalla polizia, saltare sui tetti, persino combattere contro spacciatori rivali che osavano mettere piede nel loro territorio. Ma aveva anche imparato molto di come funzionava quel mondo, e si era rotta le scatole di dover sottostare a Jun. Era un incapace e un inetto, capace di fare il grosso soltanto con le ragazzine denutrite. E Makoto si era davvero rotta. Per sua sfortuna, Jun era ancora più forte di lei. La sollevò per il colletto e la scaraventò a terra. Mentre si rialzava, Jun si avvicinò lentamente e la colpì con un calcio al costato che la lasciò senza fiato, oltre a costringerla di nuovo a terra.
    «Ricordati sempre che sei sotto di me nella catena alimentare, piccola stronza.» disse, poggiandole un piede sulla schiena e spingendola contro il suolo.
    «Allora mi basta scavalcarti e risalire, non credi?» ringhiò lei, col poco fiato che aveva in corpo.
    «Che hai detto, piccola stronza? Come cazzo ti permetti?» sbraitò lui, colpendola ancora e ancora. «Non sei altro che una minuscola merda sulla mia strada. La più piccola e insignificante delle stronze.»
    «MI CHIAMO MAKOTO!» ruggì lei, cercando di rialzarsi. L’uomo continuava a colpirla. Lei smise di cercare di alzarsi e cercò invece di respirare con calma.
    «Non me ne frega un cazzo di come ti chiami! Sei meno della sporcizia sulla mia scarpa! Sei poco più che un animale! Sei un cazzo di mostro, tu e i tuoi occhi di merda!»
    Qualcosa scattò nella mente di Makoto, qualcosa di istintivo e animale. L’uomo sollevò la gamba per calciarla di nuovo. Mentre la abbassava, Makoto si mosse istintivamente e si spostò dalla traiettoria, rialzandosi e colpendolo la gamba sollevata nel tragitto. La perdita di equilibrio aiutò e la sorpresa fece il resto: l’uomo era scoperto e Makoto gli si avventò addosso, affondando i denti nella sua gola e strappandogli un pezzo di carne. Fu un bagno di sangue. Makoto si ritrovò ben presto il volto e i capelli coperti mentre gli occhi dell’uomo, terrorizzati, la fissavano senza in realtà vederla. Si portò le mani alla gola, come per tamponare, ma era tutto inutile. Makoto sputò il pezzo di carne ai suoi piedi.
    «Gli animali mordono quando li metti all’angolo, piccolo stronzo.» gli disse, col fiatone, rimanendo a guardare la scena. Era esattamente come quella sera all’orfanotrofio, ma era cosciente, a differenza di quella volta. L’odore e il sapore del sangue erano inebrianti. La testa le girava. Ma non poteva star male. Era di nuovo libera. Ridendo tra sé, afferrò i capelli dell’uomo che ancora si contorceva e iniziò a trascinarlo, stranamente senza troppo sforzo. Lo portò fino al fiume e ce lo gettò dentro.
    «♪ Buon compleanno a me... ♪ Buon compleanno a me... ♪» canticchiò, mentre si chinava per specchiarsi nell’acqua. Il fiume lavò via il suo sangue e le sue lacrime, così come la sua vecchia sé stessa.


    Da qualche parte sotto terra, periferia del Villaggio della Nuvola, gennaio 218

    «Mbeh? Che cazzo avete da guardare? Non avete da lavorare?»
    Makoto lanciò uno sguardo ai vari scagnozzi presenti mentre ripuliva la lama retrattile dal sangue con un panno. Sorrise compiaciuta nel guardare i loro sguardi pieni di terrore. D’altronde l’aveva appena usata per trapassare il cuore di uno dei signori del crimine più potenti e famosi. Anzi, se aveva ben capito come funzionava la gerarchia da quelle parti… l’aveva appena sostituito.
    «Abbiamo dei cambiamenti da fare.»


    Da qualche parte sotto terra, periferia del Villaggio della Nuvola, marzo 219

    Makoto sbuffò pesantemente, lasciandosi andare sul suo “trono”. Era semplicemente la sedia più grande e bella, posizionata a capo di una lunga tavola da pranzo addobbata a cui a volte discuteva di lavoro con i suoi luogotenenti, ma in generale le dava un’ottima sensazione sedercisi. Si specchiò distrattamente su uno dei piatti vuoti, guardandosi negli occhi. Aveva i capelli lunghi e disordinati, e da quel bel compleanno passato insieme a Jun il suo occhio sinistro era diventato giallo. La Makoto di un tempo ne sarebbe rimasta sconvolta e terrorizzata. La nuova non se lo poteva permettere. Aveva faticato parecchio per guadagnarsi quel posto e il rispetto dei suoi seguaci, aveva spaccato qualche cranio col suo bel tetsubo ed era in cima alla catena alimentare. Adorava quell’arma, forgiata in titanio e rinforzata con un bel filo spinato tutto attorno all’estremità importante. Uno dei gioiellini che si era potuta permettere con lo stipendio della sua nuova posizione. Era stato un anno decisamente fruttuoso. Aveva sbaragliato le bande rivali che il suo predecessore aveva troppa paura per affrontare, aveva addestrato meglio i suoi scagnozzi e aveva attuato delle politiche più furbe di quelle che lui avrebbe mai potuto pensare. Era normale che avesse attirato l’attenzione delle autorità. Nonostante avesse mantenuto più cautela possibile, aveva fatto delle mosse molto azzardate. Ma arrivare ad avere degli intrusi all’interno del proprio rifugio? Quello era decisamente inaccettabile. Come aveva fatto a trovarlo? Makoto sospettava che qualcuno avesse fatto la spia. Non a caso era rimasta da sola nel rifugio. Non che i suoi scagnozzi potessero fare qualcosa. A giudicare dai suoni, l’intruso era qualcuno di molto fuori dalla loro portata. Lei era l’unica che potesse affrontarla e lo sapeva. Per questo la stava aspettando. Fu comunque sorpresa nello scoprire l’identità dell’intruso quando quest’ultima attraversò le doppie porte della sala, con un leggero fiatone e una katana nera come la notte. Makoto sorrise nel vederla e riconoscerla. Pallida, con i capelli neri, dei segni azzurri sotto agli occhi, e uno di questi, il sinistro, rovinato da un’antica ferita. Lo stemma dei Grafemi del Fulmine dondolava appeso alla sua cintura e persino quella katana nera urlavano ai quattro venti la sua identità.
    «A cosa devo questa visita, Sterminatrice della Serpe?» le chiese, allargando le braccia come ad invitarla ad accomodarsi. «Sei forse venuta a scroccare una cena? Perché no? Giusto stamani mi è arrivato dell’ottimo sakè dal Monte del Piccolo Alce che promette molto bene.»
    «Sai benissimo per cosa sono qui.» rispose lei, arrestando il fiatone con una forza di volontà invidiabile. Sembrava irritata, sicuramente molto decisa, forse i suoi scagnozzi erano riusciti a rendersi utili e avevano fermato i suoi compagni? I ninja di solito lavoravano in gruppo, no?
    «Sì, sì, portarmi davanti alla giustizia e porre fine al mio impero di malefatte, immagino, sono sempre le stesse cose.» rispose, ghignando con leggerezza.
    «Allora puoi arrenderti subito e risparmiare tempo.» disse lei, brandendo la sua katana e preparandosi ad usarla.
    «Non posso proprio permettermelo, Sterminatrice.» le rispose, alzandosi dalla sua sedia e aggirando il tavolo per fronteggiarla, camminando lentamente e trascinandosi dietro il tetsubo in modo che grattasse sul pavimento e facesse un rumore particolarmente fastidioso. La donna non rispose e partì immediatamente all’attacco. Con un ghigno, Makoto ricoprì la propria arma con uno strato di chakra Doton e la frappose tra sé e la katana, la cui lama affondò nella roccia incastrandosi contro di essa. La donna fu costretta a tirarla via e questo diede a Makoto il tempo di contrattaccare, puntando a colpire direttamente l’arma. Lo sbilanciamento dovuto all’estrazione dell’arma e la sorpresa costrinsero la Sterminatrice a ritirarsi e soprattutto, spostare l’arma per evitare fosse distrutta. Palesemente irritata dal suo tentativo di distruzione, la donna ripartì all’attacco. Quando Makoto notò i fulmini che si concentravano attorno alla katana, con un ghigno, puntò nuovamente a difendersi, ma stavolta lo fece attaccando. I fulmini sulla katana distrussero lo strato di roccia sul tetsubo solo per rivelare un nuovo strato di chakra elementale, stavolta d’Aria. Il vantaggio fu abbastanza potente da incrinare la lama della spadaccina, che nuovamente si ritirò con aria stavolta palesemente arrabbiata. Reinfoderò la lama nera per evitare che si rompesse del tutto e rimase ad osservare Makoto.
    «Mi aspettavo di più da un Grafema. Dovrebbero essere l’elite di Kumo, non è così? In un’altra vita mi sarebbe piaciuto farne parte.» la provocò Makoto, allargando il suo ghigno.
    «Non c’è posto nei Grafemi per gente come te.» la rimproverò la donna, senza preoccuparsi di non far trasparire il suo stato d’animo.
    «Suvvia, sei così dura con me. Non mi conosci neanche. Sei sicura che io sia così terribile?» continuò, sempre più divertita dalla situazione.
    «Non ne ho bisogno. Sei solo una criminale.»
    Il tono della Sterminatrice infastidì fin troppo Makoto, che fece una smorfia evidente. Odiava essere sottovalutata. Odiava essere considerata inferiore. Poteva intuire perché la Sterminatrice della Serpe, Saetta Saggia e tutte quelle cagate lì poteva sentirsi superiore a lei. Ma non lo sopportava comunque. L’aveva sopportato fin troppo nella sua vita. Era nata e cresciuta nel nulla e aveva conquistato un impero criminale. Non poteva sopportare il vedersi sminuita in quel modo. Fece schioccare la lingua con un suono infastidito e si tolse la giacca di pelle nera, sistemandola sullo schienale di una sedia. Non voleva rovinarla. Quindi, senza preavviso, riprese l’arma e si scagliò con foga contro la donna. Quest’ultima la schivò senza problemi, per nulla intimorita dalla pesante mazza spinata che le passava a pochi centimetri dal volto. Makoto continuò a cercare di colpirla, inutilmente, fino a che non si rese conto che il peso del Tetsubo la rallentava troppo. A malincuore, lasciò andare l’arma e cercò di cogliere di sorpresa la Sterminatrice con le proprie armi celate. La donna continuò a schivare finché finalmente non si decise a contrattaccare, afferrando il polso di Makoto dopo un affondo particolarmente sbilanciato e scaraventandola a terra. Infuriata, Makoto le ringhiò contro e si scagliò contro di lei nuovamente. Stavolta la presa della donna la scaraventò più lontano, rovesciata sul tavolo.
    «Mi aspettavo di più da un’Imperatrice.» disse la Sterminatrice. «Non dovresti essere in cima alla catena alimentare? Sei comunque più in basso di me. Non riuscirai mai a raggiungermi.»
    Makoto ringhiò, facendo leva sulle braccia per rialzarsi, ignorando tutto il cibo che le era finito addosso.
    «Sei una criminale come tutti gli altri. Una che sfrutta i bambini per vendere la sua droga. Non meriti tutto quel cibo. Non meriti la ricchezza. Non meriti nulla.»
    «Sono cresciuta per strada e sfruttata come mulo per la droga e nessuno ha battuto ciglio!» ruggì Makoto, cominciando ad infuriarsi.
    «Ho comprato l’orfanotrofio! Ho licenziato quelle incapaci di merda e ci ho messo delle educatrici vere! I bambini sono pagati!»
    «Sfrutti i ragazzini senza un soldo per il tuo impero.»
    «Li tolgo dalle strade! Do’ loro una casa, un rifugio caldo e un pasto sempre pronto! È più di quanto il tuo prezioso Raikage abbia mai fatto per me o per le centinaia di bambini nella mia stessa posizione!» urlò, rialzandosi sul tavolo e guardandola dall’alto in basso.
    «Forse dovresti chiederti chi sia il vero criminale!» aggiunse digrignando i denti e saltando giù, pronta ad attaccare nuovamente. Vedeva la Sterminatrice totalmente sfocata, ma poteva continuare a combattere.
    «Come hai detto, scusa?» disse lei, freddamente. Attorno a lei apparve un’aura di chakra visibile, attraversata da sporadiche scariche elettriche. Persino Makoto poté riconoscerlo come il suo peculiare Hayaton di Vento e Fulmine.
    «Il tuo Raikage è così fissato sugli altri villaggi che non si rende conto della situazione del suo paese! Forse dovremmo sostituirlo con uno a cui frega qualcosa degli abitanti, che dici?»
    «E quel qualcuno dovresti essere tu?» chiese, gelida come la neve di Kumo, mentre un’altra scarica attraversava il suo corpo.
    «Perché no? È un’ottima idea! Magari dopo che avrò ucciso te andrò a trovare lui e mi prenderò anche la sua poltrona!»
    La Sterminatrice non rispose neanche. Portò la mano sinistra ad afferrare il fodero della seconda spada che portava al fianco. La destra afferrò il manico. Era una posizione da iaijutsu. Makoto fece per preparare la sua difesa, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa si ritrovò la Sterminatrice a pochi centimetri dal volto. Una sensazione viscida la colse all’altezza dello stomaco. Guardò in basso per vedere la candida lama della Salvatrice uscire dal proprio corpo, sporca del proprio sangue. Tornò a guardare la Sterminatrice, facendo fatica a realizzare cosa fosse appena successo.
    L’ultima cosa che vide prima di cadere nell’oblio fu il riflesso dei propri occhi, estremamente chiaro, nell’occhio sano della donna. Due occhi gialli, dalla sclera nera. Gli occhi di…
    «Un mostro. È quello che resterai, per sempre.»


    Appartamento di Makoto, settembre 219

    Makoto aprì gli occhi nel terrore più totale, estremamente agitata, tanto da cadere giù dal letto prima di riuscire a riprendere cognizione dello spazio attorno a sé. Rei e Minako sollevarono il capo, entrambe allarmate dalle condizioni del risveglio di Makoto, ma lei non le notò neanche mentre lottava con le immagini estremamente vivide appena viste. Non riusciva a scacciarle né ad elaborarle normalmente. Un conato di vomito la costrinse a rialzarsi e a correre in bagno, dove si gettò in ginocchio di fronte alla tazza, rovesciando al suo interno tutto il contenuto del suo stomaco. Non aveva le forze di rialzarsi e di lì a poco vomitò ancora una volta, prima di lasciarsi cadere contro la parete vicina. Si strinse il petto, cercando di respirare normalmente, ma non ci riusciva. Il suo respiro era affannoso e neanche i versi preoccupati delle due donnole che l’avevano seguita in bagno aiutavano a riprendersi. Fu solo quando Minako le si buttò prepotentemente in grembo e forzò la sua testolina contro la sua mano che abbassò lo sguardo verso di lei. Lasciò scivolare la mano lungo tutto il corpo della donnola in una lenta e lunga carezza. Rei imitò la sorella e Makoto fece lo stesso con la mano libera. Al vedere le due donnole e al sentire la loro pelliccia sotto la mano Makoto si forzò a riprendersi abbastanza da rialzarsi. Si avvicinò al lavandino e buttò la testa sotto l’acqua gelida. Si sciacquò la bocca più volte, togliendosi il sapore del vomito. Si sciacquò più volte la faccia, cercando di scacciare dalla sua mente quello che aveva visto. Si forzò a sollevare il capo a guardare lo specchio. Per un attimo la metà sinistra del suo volto sembrò avere lo stesso riflesso visto in sogno, con l’occhio giallo, lo stesso che aveva visto sporgendosi dalla nave quella notte che aveva “incontrato” sua madre. Fu solo un momento, però. A parte i capelli bagnati appiccicati a fronte e guance, che rendevano l’immagine forse un po’ inquietante, non c’era nulla di strano in lei. I suoi occhi erano normali. Azzurri come sempre. Il colore del cielo, del mare e dei laghi. Così dovevano rimanere. Avrebbe fatto meglio a ricordarselo.
    «Ma che cazzo ho mangiato ieri sera?»
  11. .
    Dato che il piano sembrava condiviso anche da Akane, Katsuo non si fece troppi problemi ed entrò immediatamente nella grotta. Camminò davanti alla ragazza, sia per attirare l'attenzione su di sé sia per, idealmente, coprire la figura più minuta di lei con la propria stazza. A delle possibili trappole non gli venne nemmeno da pensare. Figurarsi se dei briganti di infimo livello come quelli erano così furbi da coprire l'ingresso del loro covo. Erano anche appena rientrati da una scorribanda, quindi figurarsi se ne avevano il tempo. Fortunatamente non era il caso di preoccuparsi. La caverna sembrava abbastanza incustodita. Katsuo proseguì con giusto una piccola dose di cautela, in particolare intorno agli angoli che potevano nascondere dei nemici, ma per il resto camminò abbastanza tranquillo. Lo scopo era attirare l'attenzione su di sé mentre Akane si nascondeva, e almeno poteva dire che era una cosa che gli riusciva bene.
    Di lì a breve, infatti, sentì una voce allarmata poco distante. Due figure comparvero nel suo campo visivo, evidentemente quelli che avevano iniziato ad urlare. A giudicare dalle loro parole, non avevano visto Akane, il che significava che il piano funzionava perfettamente. Continuò a camminare, senza neanche fermarsi a guardare la ragazza per non rischiare di rendere palese la sua presenza. Si infilò le mani in tasca e andò loro incontro, anche se mantenne una certa cautela per rispondere ad eventuali loro attacchi. Si sarebbe fermato a una decina di metri da loro per studiarli meglio, sempre se l'avessero lasciato avvicinare senza fare problemi.
    «Katsuo Uzumaki, del Villaggio della Nebbia, è qui per portarvi alla giustizia.» cominciò a dire, una volta a portata di voce. «Abbiate la dignità di arrendervi immediatamente e non prolungare questa farsa.» continuò. Dopo una piccola pausa, passata ad osservare le due figure a turno, sollevò forzatamente un sopracciglio. «Siete in superiorità numerica e avete comunque bisogno di aiuto? Vi ho sopravvalutati, forse?» chiese infine. L'intento era palesemente quelli di provocarli. Infatti, anche se rimase immobile all'esterno, iniziò ad impastare internamente il chakra per una tecnica, per il Campo Caramelloso nello specifico. Se i due nemici l'avessero caricato, avrebbe cercato di intrappolarli sputando davanti a sé la melma appiccicosa generata dalla tecnica. Per il momento però si limitò a rimanere preparato, senza neanche comporre sigilli, per evitare di allarmarli prima del tempo. Non aveva idea di quanto tempo servisse ad Akane per preparare la sua strategia, ma immaginò che più tempo prendeva, meglio era. Sperava solo di rendersi conto immediatamente dell'arrivo del momento giusto.
  12. .
    Le parole di Natsuki ebbero l'effetto di una secchiata di benzina sul fuoco. Makoto si ritrovò a perdere il fuoco sul cupcake che stava cercando di mangiare e non appena lo notò fece per poggiarlo sul tavolo, con movimenti troppo lenti e controllati perché potessero presagire qualcosa di buono. Quando posò lo sguardo sulla ragazza, quest'ultima avrebbe tranquillamente potuto notare le sue pupille ristrette in un taglio verticale che di umano aveva ben poco. Stranamente, rimase in silenzio per qualche secondo, permettendosi di lanciare un'occhiata anche ad Anzu mentre usciva. Non le rispose neanche e non ricambiò il suo sguardo se non per qualche istante. Non se ne faceva nulla dei sensi di colpa di Anzu, così come dell'atteggiamento condiscendente di Natsuki.
    Dopo l'uscita della bionda si alzò, un po' più bruscamente di quello che voleva. La sedia le sfuggì da sotto le gambe e rischiò di cadere, ma d'istinto la legò ad un filo di chakra e la tirò verso di sé per non farla cadere a terra. Quando la parte razionale della sua mente realizzò cosa era successo, si pentì di non aver fatto cadere la sedia. Era un favore che non voleva fare a Natsuki; che pensasse pure che era lei quella strana, quella inappropriata, quella che doveva sopprimersi per poter stare nella società. Ormai Makoto era abituata alla gente che la trattava in quel modo. Ed era anche piuttosto stufa.
    «Davvero, Natsuki Kuga?» disse, e si stupì lei stessa dell'apparente calma con cui aveva parlato, o quantomeno della lucidità con cui l'aveva fatto. Era un tipo di rabbia fredda, un tipo di rabbia che veniva da pensieri razionali della sua testa, da una certa delusione nei confronti di Natsuki e da un superamento del suo limite di sopportazione, diversamente dalla rabbia furiosa che veniva dall'istinto animale nella sua pancia.
    «La gente muore, in guerra? La gente viene ferita? E la gente non vuole morire? Pensi davvero che non me ne sia accorta? Sei tu quella che non ci vede da un occhio, io al massimo ci vedo sfocato. Ma ti assicuro che l'odore del sangue l'ho sentito per bene, da vicino. O pensi davvero che io sia così stupida, o infantile, o cos'altro?» sbuffò, stringendo i pugni e muovendo un passo verso Natsuki. Riprese a parlare, sempre più arrabbiata e col tono di voce che andava alzandosi man mano che continuava a sfogarsi.
    «Ma sai cosa, Natsuki? Sì, credo che chi ha pagato un prezzo troppo alto ne avrebbe fatto volentieri a meno. Cosa cambia?. È successo comunque. È quello il punto. È successo. È già successo. Piangi pure quanto vuoi, ma non cambia gli eventi passati. Posso piangere anche io perché ho mangiato pesce marcio per anni, e lamentarmi che la società è ingiusta, e che i bambini non dovrebbero mendicare per avere da mangiare, ma questo non cambierà il fatto che c'è gente che non riesce a mangiare tutti i giorni. Oppure posso fare qualcosa per cambiarlo.»
    Fece una pausa, e si accorse di avere il fiatone. Era furiosa, ma riusciva a mantenere comunque un certo autocontrollo, il che era una novità anche per lei. Era come sentire le sensazioni di qualcun altro, o sentirle dall'esterno. Le tempie le pulsavano ritmicamente e probabilmente aveva affondato le unghie nei palmi delle mani un po' troppo a fondo, perché provava dolore, eppure non sentiva il desiderio di saltare al collo di Natsuki e azzannarla. Di darle uno schiaffo, o di tirarle una secchiata d'acqua gelida in faccia, quello magari sì. Ma non era violenza insensata quella che desiderava. Sbuffò a lungo prima di riaprire bocca.
    «Puoi piangere quanto vuoi, oppure puoi iniziare a pensare a come evitare la prossima guerra. O magari hai qualche altra lezione per me, maestra?» chiese, forse con più disprezzo di quanto sarebbe stato ideale. Con fare irritato riacchiappò quello che restava del cupcake e quasi se lo lanciò in bocca per finirlo in un boccone solo. Tutto per occuparsi la bocca ed evitare un nuovo flusso di parole mentre attendeva la risposta di Natsuki, il cui sguardo preferì non incrociare, dedicandosi intanto a una credenza in disparte.
  13. .
    Nome Personaggio: Katsuo Uzumaki
    Villaggio: Kiri

    Nome Personaggio: Akane Harada
    Villaggio: Iwa

    Nome della caccia: Phantom Destiny
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    Generalità
    F25Zvrt
    Nome: Katsuo "Sieghart" Uzumaki
    Età: 22 anni (15 febbraio 198)
    Sesso: Maschile
    Altezza e peso: 192cm x 90kg
    Elemento: Suiton, Katon
    Innata: Arte della Vitalità
    Villaggio: Kiri
    Evocazione: Lumache
    Grado: Chuunin
    Livello: 13
    Descrizione fisica
    BvvbmsNUna folta chioma di corti capelli rossi fa da corona ad un volto molto giovanile, quasi da bambino, che tende però a sembrare molto più vecchio con un minimo di barba. L'espressione e gli occhi ambrati sono spesso inespressivi, soprattutto quando si perde nei suoi pensieri. Questo crea l'illusione che Katsuo sia una persona perennemente arrabbiata o fredda e apatica, e anche se non è una cosa del tutto errata, è la conformazione del suo volto che lo porta ad assumere sempre la stessa espressione.
    Il suo fisico, alto ma piuttosto longilineo, è quello che ci si aspetterebbe da un Uzumaki che ha imbracciato armi o martelli da fabbro sin da quando aveva la forza di sollevarli: la resistenza tipica del suo clan e i duri allenamenti l'hanno portato a sviluppare un certo vigore fisico e dei muscoli ben definiti, in particolare nel braccio principale, ossia il sinistro.

    Descrizione psicologica
    Qualcuno lo definirebbe il soldato perfetto. Leale, dedicato, con un forte senso dell'onore e spirito d'abnegazione. Altri lo definirebbero ingenuo, una pedina pronta ad essere sacrificata alla prima occasione. Lui si definirebbe tranquillamente entrambe le cose. Dopo anni passati a sopportare che altri prendessero decisioni per lui, ha preso la sua prima vera decisione ed è intenzionato a restare su quel percorso costi quel che costi. Serietà, determinazione e freddezza sono dei muri che ha costruito per nascondere un animo tutto sommato gentile, che per anni è stato soppresso e solo recentemente ha iniziato a riaffiorare. Pur non essendo un tipo violento, a causa della vita di repressione che ha vissuto, a volte è prono a scatti d'ira sfogati in atteggiamenti aggressivi. In combattimento tende a concentrarsi solo sulla lotta, unico sfogo fisico alle sue frustrazioni. Nonostante questo, non si annulla completamente e anzi mostra un notevole autocontrollo. Spesso si rende conto che il suo carattere non è che la fusione di quelli di una nonna fedele al Villaggio, un padre violento e irrazionale e una madre gentile e caritatevole, ma non per questo si sente privo di identità. Gli piace pensare di aver preso il meglio dalle uniche tre figure di riferimento che abbia mai avuto, e ora che si è tirato fuori dalle sabbie mobili delle aspettative altrui, è convinto che imparerà presto a gestire il suo vero essere.

    Background
    U8BiWyUKatsuo nasce durante una piovosa notte invernale, nella dimora di una branca del clan Uzumaki a Kiri. Crescendo, il piccolo Katsuo mostra una notevole energia e una chioma rossiccia, segnali che fanno sin da subito ben sperare in uno sviluppo dell'abilità innata della Vitalità e di conseguenza in una carriera da ninja.
    La casa che lo accoglie è fredda. Un tempo sede di una sezione secondaria del clan Uzumaki, è ormai stata abbandonata da quasi tutti gli abitanti. Katsuo vive con la madre Asami, ex-Chuunin che ha rinunciato ad una promettente carriera per sposarsi, con il padre Siegward, armaiolo ed ex-mercenario che millanta improbabili discendenze dai capitribù del dominio barbaro, e con la nonna Chiasa, ex-ninja medico di alto livello ormai ritiratasi dall'attività a causa dell'età avanzata. Un tempo una famiglia numerosa, gli Uzumaki che hanno vissuto in quella casa sono stati colpiti duramente da diverse sfortune: i dodici fratelli e sorelle di Asami sono quasi tutti morti durante delle missioni e i pochi rimasti hanno preferito non iniziare neanche la carriera ninja o ritirarsi dopo gravi ferite per andare a vivere altrove, in pace. Per questo Chiasa, fedele sin dalla gioventù al Mizukage - e in seguito ai suoi successori, ovviamente - disprezza la figlia per aver rinunciato ai propri sogni per inseguire un uomo, disprezza suddetto uomo per i suoi modi rozzi e spesso violenti, e vede in Katsuo la giovane speranza per la rinascita del clan, o perlomeno di quel ramo della famiglia. Diversamente, il superstizioso Siegward vuole tenerlo lontano dall'Accademia, convinto che farebbe la fine dei suoi zii a causa della maledizione della famiglia. Lo vorrebbe piuttosto armaiolo, come lui, in quanto un mestiere sicuro e molto richiesto in un Villaggio altamente militarizzato come Kiri. Sua madre si trova in mezzo alle discussioni dei due, in una posizione moderata, e insiste perché Katsuo scelga da solo la sua via, ma a causa del suo carattere remissivo viene spesso ignorata o bistrattata da entrambi i lati.
    Su una cosa, però, sia Chiasa che Siegward sono d'accordo: la fedeltà cieca alla posizione del Kage e dell'istituzione Kiriana. Pertanto il piccolo Katsuo viene cresciuto come un soldato perfetto. Gli viene messa in mano un'arma affilata all'età di otto anni e gli viene imposto un allenamento duro sia dalla nonna che dal padre, mentre la madre garda in silenzio. Per qualche anno, la situazione rimase relativamente calma. All'età di dodici anni, però, ricominciano i problemi. Chiasa insiste perché Katsuo vada in Accademia per il suo allenamento da ninja e Siegward ovviamente si oppone. Dopo settimane di litigi, discussioni e pianti da parte di Asami, Siegward decide che non ne può più e va via di casa, portandosi dietro tutti i suoi averi meno uno: una spada dritta, diversa dalle katane diffuse in quella parte di mondo. Afferma di averla ereditata da un nonno barbaro e sostiene che sia giusto che l'abbia Katsuo. Katsuo la conserverà per anni, tenendola come un cimelio quasi da riverire.
    Gli anni successivi, nonostante l'assenza del padre e di conseguenza dei litigi in famiglia, sono però piuttosto difficili per Katsuo. A causa della frustrazione generatasi per la situazione familiare, Katsuo ha molta difficoltà in Accademia. Non riesce a concentrarsi e a manipolare il chakra come i suoi coetanei, e i rigidi allenamenti imposti dalla nonna non fanno che peggiorare la situazione. Inizia una fase di ribellione adolescenziale, accentuata dalla delusione di non riuscire a guadagnarsi il suo coprifronte, che lo porta a scatti d'ira e a iniziare discussioni con la nonna, che lo incolpa di essere troppo simile al padre e quindi di essere un fallimento. I litigi peggiori avvengono quando la frustrazione della nonna si scarica su Asami. All'età di diciotto anni, stanco dell'ennesimo "sei uguale a tuo padre", Katsuo manda al diavolo la nonna, afferra la spada di suo padre e se ne va di casa.
    L'anno successivo viene speso completamente nelle indagini e nelle ricerche. Katsuo vuole ritrovare il padre, intenzionato a farsi addestrare almeno come soldato, dato che la carriera da ninja è andata male ancora prima di cominciare. Il giovane gira in lungo e in largo il Paese dell'Acqua, guadagnandosi da vivere con qualche lavoretto, principalmente come marinaio o trasportatore, dato che i muscoli sono l'unica cosa che può offrire. Siegward verrà ritrovato quasi per caso nella stiva di una nave merci diretta al Paese del Mare. La visione che si presenta davanti a Katsuo è a dir poco penosa. Siegward è solo un guscio vuoto di quello che un tempo era un uomo fiero. I capelli un tempo dorati erano diventati di un biondo sporco incrostato di fuliggine, una barba disordinata e incolta incornicia il volto dell'uomo e l'odore di vino marcio che arrivava al naso di Katsuo ogni volta che l'uomo apriva bocca era a dir poco disgustoso. L'uomo, in preda ai fumi dell'alcol, lo accusa di avergli rovinato la vita e arriva addirittura a minacciarlo con i resti di una bottiglia spezzata. Katsuo a quel punto prende una decisione. L'arma che aveva tenuto come una reliquia, senza mai neanche estrarla dal fodero, sarà quella che lo difenderà dal padre. Decide quindi di impugnarla, ma quando la estrae dal suo fodero è solo un moncherino arrugginito e distrutto dal tempo. La vista fa scoppiare Siegward in lacrime, che lo accusa di aver distrutto la sua eredità. L'illusione crolla, e Katsuo si rende conto di quanto l'uomo non era che un bugiardo e un buffone. Le storie di eroismo che tanto gli piaceva raccontare erano tutte inventate. Disgustato, il ragazzo getta la spada distrutta ai piedi del padre e se ne allontana.
    Durante il viaggio di ritorno a Kiri, però, Katsuo prende finalmente la sua decisione finale. Si iscriverà all'Accademia, ma lo farà a modo suo, prendendo il poco che di buono c'era dagli insegnamenti di Chiasa e Siegward ma senza lasciarsi manipolare da nessuno dei due. La sua fedeltà sarà dedicata solo alla madre, unica persona che l'ha sempre apprezzato per quello che era senza cercare di farlo diventare qualcos'altro, e verso la Mizukage al quale offrirà la sua spada e la sua vita, pur di riguadagnare un minimo di onore per sé stesso e per il suo clan.
    Dati
    Statistiche:
    Forza: 50 (42+0+8)
    Resistenza: 86 (58+20+8)
    Velocità: 54 (54+0)
    Agilità: 54 (54+0)
    Precisione: 30 (30+0)
    Riflessi: 56 (56+0)
    Chakra: 570 (520+20+30)

    Punti esperienza: 506/520
    P.A.: 0 (390 usati)
    Soldi: 352 ryo
    Specializzazione: Potenziamento Chakra III - Armi pesanti IV

    Abilità:
    • Camminare in verticale
    • Camminare sull'acqua
    • Concentrazione del chakra elementale
    • Richiamo inverso: comunicazione
    • Manifestazione dell'Aura
    • Lettura dei sigilli

    • Vigore (1)

    • Evocare armi pesanti migliorato
    • Recupero dell’arma
    • Deviare la traiettoria
    • Contrastare i ninjutsu (1)

    Furia degli Uzumaki
    Armi:
    - Spadone del Lupo Abissale
    - Fushikiri
    - Cartabomba x1
    Oggetti:
    - Coprifronte di Kiri
    - Giubbotto Chuunin di Kiri
    - Guanti da Spadaccino
    - Manto dell'Erede
    - Fodero delle Mille Lame
    - Medaglione di ferro dell'Esercito della Vita [Intrecciato a mo' di spilla sul Manto dell'Erede]
    - Rotolo vuoto medio
    - Bastoncino di zucchero [Avvento 2019]
    - Palla di vetro con la neve [Natale 2020]
    - Misterioso oggetto anacronistico [Natale 2021]
    - Porta armi (?) [Natale 2021]

    Missioni svolte:
    [D] My wife and kids - Completata
    [C] Risaie malvagie - Completata
    [C] The Bald Man - Completata
    [C] Affari di famiglia - Completata
    [C] Figli di chi? - In corso
    Cacce svolte:
    [D] Phantom Destiny - Completata
    [C] Hora Tapi - Completata

    Tecniche
    Tecniche base:
    • [D] Tecnica della Trasformazione
    • [D] Tecnica della Moltiplicazione del corpo
    • [D] Tecnica della Sostituzione
    • [D] Rivolo
    • [D] Fiammella

    Taijutsu:
    • [C] Dropkick (Kakoukiko)
    • [A] Via del Guerriero – Soresu 9° Forma: Occhio Splendente

    Armature:
    • [B] Armatura del Lupo Abissale
    • [B] Armatura del Leone Dorato
    • [B] Armatura della Vespa Distruttiva
    • [B] Armatura del Corvo nell'Ombra

    Respirazione dell'Acqua
    • [B] Primo kata - Squarcio della superficie
    • [B] Secondo kata - Ruota d’acqua
    • [B] Terzo kata - Danza della corrente rapida
    • [B] Quarto kata - Taglio della Marea
    • [C] Quinto kata - Pioggia benefica
    • [A] Sesto kata - Vortice ritorto
    • [A] Settimo kata - Affondo dei cerchi d’acqua
    • [A] Ottavo kata - Bacino della cascata

    Respirazione delle Fiamme
    • [B] Primo kata - Mare di fuoco
    • [B] Secondo kata - Torrido Sole Nascente
    • [B] Quarto kata - Ondate di fiamme ardenti

    Danza del Dio del Fuoco
    • [B] Valzer
    • [B] Paradiso celeste

    Suiton:
    • [C] Arte dell'Acqua: Muro acquatico (Suiton: Suijinheki)
    • [C] Arma d'acqua (Mizukuri no Yaiba)
    • [C] Arte dell'Acqua: Tecnica della Cascata (Suiton: Takitsubo no Jutsu)
    • [B] Taglio Acquatico (Mizu Kamikiri)
    • [B] Pugno acquatico
    • [B] Arte dell'Acqua: Tecnica della Moltiplicazione Acquatica (Suiton: Mizu Bushin no Jutsu)
    • [B] Arte dell'Acqua: Campo Caramelloso (Suiton: Mizuame Nabara)
    • [A] Vade Retro!
    • [A] Arte dell’Acqua: Kuroni

    Katon:
    • [C] Arte del Fuoco: Soffio Incendiario (Katon: Endan)
    • [B] Arte del Fuoco: Sofferenza Istantanea (Katon: Zukokku)
    • [B] Scatto bruciante
    • [A] Arte del Fuoco: Grande Fiato di Fuoco (Katon: Dai Endan)

    Ninjutsu:
    • [B] Arte Magica: Rilascio (Ninpou: GenJutsu Kai)

    Genjutsu:
    • [B] Occhio della Calamità

    Innata:
    • Sigillo di Assorbimento
    • Sigillo di Occultamento Supremo
    • Chakra Guaritore
    • Sigillo di Assorbimento Migliorato
    • Catene di Chakra



    Edited by Revan - 6/1/2022, 19:55
  15. .
    Era ormai qualche giorno che Makoto si aspettava che succedesse qualcosa. Il Villaggio era tranquillo e sereno, e la vita scorreva come tutti i giorni, ma Makoto fiutava odore di pericolo nell'aria. Makoto era una persona attenta e naturalmente curiosa; Makoto origliava sempre il più possibile; soprattutto, Makoto era una persona che rompeva le scatole alla gente con un mucchio di domande. Più volte aveva cercato di ottenere risposte dai suoi superiori, senza ricevere risposte soddisfacenti. All'ennesima risposta sulla falsariga di "non c'è guerra a Kumogakure", si era messa il cuore in pace. Se ci fosse stato bisogno di lei, gliel'avrebbero detto. Eppure c'erano una serie di dettagli che non quadravano. Primo tra tutti, il fatto che a farle firmare il contratto con le Donnole era stato chiamato un sensei straniero, invece del burocrate dell'Accademia che avrebbe potuto farlo con facilità. Ed era proprio l'assenza di movimento a insospettirla. Kumo era famosa per essere una delle nazioni più militarizzate. Il Raikage era famoso per essere un uomo che comunicava coi fatti. I suoi alleati erano sotto attacco. Possibile che se ne stesse tenendo fuori? Makoto non era convinta, ma non aveva modo di poter ottenere nuove informazioni. Il suo unico contatto con i piani alti del Villaggio era Natsuki, e se lei avesse ricevuto l'ordine di non dire niente, non avrebbe detto niente.

    Quella mattina, come tutte le altre mattine, Makoto si era svegliata presto. Era una persona che andava a dormire al tramonto e si svegliava all'alba. Si era stiracchiata, si era alzata dal letto e con tutta la calma del mondo era andata a vestirsi. Le due donnole che abitavano con lei non si erano ancora svegliate, quindi aveva un po' di tempo prima che reclamassero cibo. Per il momento si era limitata a una maglia e a un paio di pantaloni, giusto per evitare di avere freddo, poi si era diretta alla finestra del suo disadorno monolocale con in mano un bicchiere riempito nel lavandino della cucina. Una volta alla finestra, la aprì lasciando che la gelida aria mattutina la svegliasse del tutto. Versò il bicchiere d'acqua in un vaso appeso al davanzale, un unico vaso piuttosto piccolo da cui spuntava una minuscola foglia sottile e allungata, appartenente a un'unica piantina di cipolla. Andò a posare il bicchiere, recuperò una spazzola e se ne tornò sul davanzale, sedendosi con la schiena contro uno stipite, la gamba sinistra contro lo stipite opposto e la destra che penzolava fuori, attenta a non far cadere il vaso attaccato. Si spostò i capelli sul petto e iniziò il lungo procedimento di spazzolamento che le serviva per districare la lunga chioma. Poteva non sembrare, ma Makoto era una persona che cercava di mantenersi pulita il più possibile, anche se forse non particolarmente in ordine.
    Con lo sguardo, pigramente, osservava le strade sotto alla ricerca di qualcosa che la distraesse o la intrattenesse durante quel lungo rituale mattutino. Proprio per questo poté notare una figura familiare camminare per la strada: una ragazza senza un occhio, agghindata per la battaglia, da sola, con l'aria ancora più costipata del solito. Natsuki non sembrò notarla e Makoto non fece nulla per interrompere la sua missione, ma scese dal davanzale tornando nell'appartamento.
    «Non c'è guerra 'sta gran funciazza.» mugugnò, mordicchiandosi il pollice destro con uno dei suoi canini particolarmente affilati. Compose i cinque sigilli che le servivano e poggiò la mano a terra. Lo sbuffo di fumo le preannunciò l'arrivo di una assonnata donnola dal pelo candido.
    «Buongiorno, Chitachi. Scusa l'orario, ma ho una certa fretta. Devi portare un messaggio per me. A Natsuki, una tipa senza un occhio, quella con il fodero della spada su per il culo. Cerca di beccarla da sola. Perderà tempo alle porte del Villaggio, ma se dopo si mette a correre non la pigli più, quindi cerca di fare in fretta se puoi. Mi farò perdonare dopo per averti svegliato.»
    L'ultima parte gliela comunicò mentre la guidava verso la finestra e le indicava la direzione verso cui aveva visto sparire, ovviamente dandole anche il messaggio da consegnare: un semplice "vedi di non fare la cogliona e di tornare tutta intera".
    «Mi aspetto un banchetto da re quando torno.» si lamentò Chitachi, mentre saltava di davanzale in davanzale e correva dietro a Natsuki.
    Il trambusto sembrò svegliare anche Minako e Rei, le due donnole, che ovviamente iniziarono a lamentarsi, affamate. Makoto finì di prepararsi con estrema calma e si incamminò verso il mercato. A breve avrebbero iniziato ad allestire i loro banchi e Makoto aveva da nutrire tre donnole affamate, oltre che sé stessa.


    Un paio d'ore dopo Makoto era di nuovo a casa, di nuovo sul davanzale, a tocchicciare la piccola fogliolina di cipolla spuntata dalla terra con un sorrisetto ebete in faccia, mentre le due donnole compagne stavano finendo di finire la loro mangiata. Chitachi si era già abbuffata e se ne era tornata nel suo mondo, e Makoto stava valutando cosa fare della sua giornata. Non aveva missioni e - a quanto pareva - neanche Natsuki da importunare. La scelta le fu tolta dall'arrivo di quello strano gufo, ovviamente immediatamente puntato da Rei, che con aria affamata lo fissò iniziando ad avvicinarsi quatta quatta. Notando il messaggio alla sua zampa, comunque, Makoto le fece cenno di stare buona. Prese il rotolino e fece cenno al gufo di allontanarsi, così da lasciare Rei a bocca asciutta.
    Lesse il messaggio con faccia contrita, prima di sospirare.
    «Si sono decisi a muovere il culo?» sbuffò. Chiese a Minako di aspettare, fece cenno a Rei di seguirla e si diresse al campo di addestramento numero 1, come la lettera gli suggeriva. Non le era venuto in mente di cercare di parlare col gufo per capire se fosse un'evocazione pure lui, ma l'urgenza compensò la mancanza di firme o sigilli e bastò a far capire a Makoto che non aveva tempo da perdere. Mentre usciva, strappò il foglietto in mille pezzettini e li gettò nel lavandino.
    Arrivò al campo con Rei che le stava in equilibrio su entrambe le spalle, il corpicino elastico curvato dietro la testa della ragazza. L'unica figura presente oltre a lei era un ninja che riconobbe immediatamente. Snake era piuttosto famoso per chi passava molto tempo all'Accademia, ma Makoto tendeva a starsene il più lontano possibile da lui. Lo rispettava come ninja, ovviamente, ma l'odore di fumo che lo accompagnava perennemente non faceva che infastidire sia il suo naso, particolarmente sensibile, che quello di Rei, che iniziò subito a fare smorfie disgustate. Makoto si limitò a storcere il naso, ma rimase in rispettoso silenzio fino all'arrivo di Anzu. Quindi avevano convocato anche li? Non la sorprendeva.
    Makoto le rivolse giusto un cenno di saluto, prima di concentrarsi semplicemente sulle parole dell'uomo. Makoto, a differenza di Anzu, rimase in posizione più o meno rilassata, ogni tanto sbuffando dal naso per allontanare l'odore fastidioso. Rei, dopo poco, saltò giù dalle spalle di Makoto e si allontanò, aspettandola in disparte.
    La missione richiedeva segretezza, a quanto pare, e per questo avevano chiamato proprio loro. Lanciò un'occhiata ad Anzu. Dal poco che sapeva del suo modo di combattere, non era esattamente una persona che puntava alla furtività. Ma era in effetti una persona di poche parole, cosa che di certo aiutava con la segretezza.
    Proseguì poi con la spiegazione della loro missione. Makoto aggrottò la fronte al sentire delle minacce alla Zanna. Inutile negare che percepiva un certo legame con i ninja della Zanna e che il loro Paese fosse il suo preferito da visitare quando usciva da Kumo. Serviva gente in grado di far finta di andare a portare a spasso il cane mentre in realtà andava a salvare delle vite. E che ci voleva? A dirla tutta, la cosa le provocò un sorrisetto dei suoi, di quando mostrava quel suo senso dell'umorismo un po' sfasato. A divertirla era l'idea di aver capito perché avevano scelto proprio lei e Anzu.
    Alla fine, chiese se avevano domande. Anzu fece quella più sensata, e Makoto preferì chiedere un chiarimento.
    «Supporto bellico. Vuol dire andare ad ammazzare più mercenari possibile o ci si aspetta altro?» chiese, piuttosto tranquilla. Strano notare quanto l'idea di andare in guerra non la rendesse nervosa. Era un combattimento come un altro. Non sentiva particolare pressione, e questo dimostrava quanto fosse in realtà immatura da quel punto di vista.
    Non aveva comunque altro da chiedere. Salutò il ninja con un cenno rispettoso del capo e fece per congedarsi.
    «Fai trenta, devo mollare Minako da qualche parte.» rispose ad Anzu, prima di correre via. Aveva una certa fretta. Non aveva preparato nulla.


    Mezz'ora dopo, forse un po' di più, si presentò all'ingresso del Villaggio. Minako e la sua piantina di cipolla erano state mollate ad un certo veterinario di sua conoscenza, con la scusa perfetta di dover partire per una missione per un ninja tanto famoso e il divieto assoluto di rinchiudere Minako in gabbia.
    Sistemati quegli affari, era pronta a partire. Stava indossando un paio di pantaloni militari - colori tra il nero e il grigio scuro - di tela resistente, pieni di tasche, stretti sui fianchi da una cintura a cui aveva appeso, sul retro, una sacca contenente una ventina tra kunai e shuriken, oltre che a una ricetrasmittente sul fianco destro. Una semplice canotta nera, stretta, rappresentava la parte superiore del suo abbigliamento. Protezioni a gomiti e ginocchia e un paio di guanti lunghi quasi fino al gomito rappresentavano i suoi accessori. Sopra, indossava un impermeabile semplice e leggero, giusto una protezione dalla pioggia e dalle intemperie, con tanto di cappuccio, di un bordeaux abbastanza scuro, stesso colore del tessuto del coprifronte che indossava alla gola, a mo' di foulard, come al solito. All'avambraccio sinistro, inoltre, portava un tekkou col metallo laccato dello stesso colore di impermeabile e coprifronte. Sulla parte interna dello stesso braccio, nascosto dai legacci di cuoio del tekkou, il meccanismo della lama celata. Le tasche sulle cosce erano occupate da un paio di fumogeni, uno per lato. Rei, ovviamente, era con lei, zompettando al suo fianco.
    Fece un cenno ad Anzu e in silenzio l'avrebbe seguita fuori dal villaggio. Durante il viaggio sarebbe stata piuttosto tranquilla. Anzu avrebbe potuto notare la differenza nel suo passo, molto più sicuro rispetto all'ultima volta che avevano viaggiato insieme. Le camminava ancora al fianco, ma invece di cercare di adeguarsi al suo passo, camminava con una certa sicurezza, senza farsi guidare. Oltre a quello, invece di guardarsi intorno, annusava l'aria costantemente, con i sensi in allerta.
    Rispose tranquillamente alle domande sulla sua donnola, spiegando come l'aveva ottenuta e in che modo la cosa aveva cambiato il suo modo di combattere, le abilità e le tecniche che ne derivavano, primo tra tutti l'olfatto aumentato. Le disse un po' di tutto, era importante che Anzu sapesse come combatteva ora, considerando che avrebbero lottato insieme.
    Quando Anzu si fermò, notando la battaglia lontana, Makoto fece qualche altro passo, sollevò il capo e inspirò a fondo. Forse era autosuggestione, forse il vento era particolarmente favorevole, ma a Makoto sembrò di sentire un miscuglio di odori che le strapparono la tranquillità dalla faccia: sangue, cenere, carne in putrefazione forse. Le sembrò persino di sentire odore di pelo bruciato. Fece una smorfia disgustata, tornando a voltarsi verso Anzu e lanciandole un'occhiata seria, d'intesa. Erano decisamente arrivate al luogo giusto.
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