Your best nightmare

Mini-evento: La forza di uno

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    Demone perturbatore di anime

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    Kumo
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    Zona portuale del Villaggio della Nuvola, dicembre 216

    Hachi era una persona solare e allegra. Era felice, e aveva ragione di esserlo. La sua vita era esattamente quella che voleva lui. Era uno Special Jonin del Villaggio della Nuvola e adorava viaggiare. Passava quasi tutto il suo tempo fuori dal Paese e si soffermava ogni volta che poteva, visitando sempre posti nuovi. Era bello tornare alla Nuvola una volta ogni tanto, ma in generale non si fermava mai troppo a lungo. Quella sera era un’eccezione. Era quasi il periodo di Natale, e lui era appena tornato via nave da una lunga missione all’estero. I suoi compagni avevano preferito chiudersi in taverna a mangiare un pasto al caldo, ma lui aveva preferito prendere dei takoyaki da asporto e mangiarli passeggiando. La zona del mercato era adorabile in quel periodo dell’anno. Le bancarelle restavano aperte fino a tardi, attirando clienti di ogni tipo. La maggior parte erano famigliole con bambini. Aveva un debole, per i bambini. Erano divertente interagire con loro. Erano innocenti e pieni di fantasia. Lo riempivano sempre di speranza. Erano il futuro del Paese del Fulmine. Avrebbe adorato mettere su famiglia e averne uno suo, un giorno, ma con il suo lavoro e la sua attitudine al viaggio non era davvero il caso; in più, era una frana con le donne. Il suo carisma era sottozero e si imbarazzava sempre così tanto da rovinare i pochi appuntamenti che riusciva ad ottenere.
    Si soffermò su una panchina. Era ignorata nonostante la folla perché era metallica e faceva troppo freddo, ma lui era abituato a ben di peggio. Si gustò i suoi takoyaki in pace, osservando la gente. Le luci, le campanelle, le risate dei bimbi e il suono dei caroselli. Era tutto estremamente affascinante, quasi magico.
    Non per tutti, però. Nella folla, intravide una ragazzina non accompagnata. Era bassina e molto magra, quasi denutrita e vestita di stracci. I lunghi capelli castani erano sporchi e i suoi occhi azzurri lasciavano trasparire una certa tristezza. Immediatamente ebbe l’istinto di alzarsi, di offrirle da mangiare e magari portarla in un negozio di abiti perché scegliesse qualcosa di più caldo, ma si rese conto subito dopo che forse non ne aveva tanto bisogno. La ragazzina si stava guardando intorno con aria circospetta. Non sembrò notare lui che la stava guardando. Sembrava che nessun altro la stesse notando e lei ne sembrava convinta, date le sue azioni successive. Si immerse nella folla dopo aver scelto un bersaglio e sfilò qualche monetina dal borsello di un signore dall’aria distinta. Hachi sollevò un sopracciglio. Stranamente, rimase particolarmente ammirato dai suoi movimenti. Era stata rapida e precisa. Come una donnola, si ritrovò a pensare ridacchiando. Nulla a che vedere con un anche il più scarso tra i ninja, ma per una persona comune era notevole. Poteva essere un buon inizio.
    Normalmente non tollerava il crimine, ma non gli erano sfuggiti alcuni dettagli. Tipo il fatto che la ragazza avrebbe potuto semplicemente rubare tutto il borsello e avere vita più facile invece di sfilare solo qualche monetina. Incuriosito, si alzò e la seguì da una certa distanza per osservare come continuava la cosa. La ragazza donnola sfilò qualche altra monetina, scegliendo sempre bersagli dall’aria facoltosa. Quando raccolse un piccolo gruzzoletto, invece di andarli a spendere in cose illegali o portarli a un capo come succedeva la maggior parte delle volte in quei casi, si limitò a comprarsi del cibo. A quel punto Hachi era sicuro di volerla aiutare e iniziò a studiare un piano per avvicinarla senza farla spaventare.
    «Sei ancora lì a mangiare? È arrivata una comunicazione di Kyomaru, il Raikage vuole vederci subito. Che ne dici di alzare il culo?»
    Hachi sbuffò infastidito verso il proprio compagno che stringeva tra le mani un rotolo appena aperto. Lanciò un’ultima occhiata verso la ragazzina e sospirò affranto.
    «Tornerò a prenderti, ragazza donnola. Aspettami, ok? Non metterti nei guai.» mugugnò tra sé, incamminandosi insieme al compagno.
    «Non fare lo schifoso.» lo rimbrottò lui, tirandogli un pugno sulla spalla.
    «Ahia! Ma che hai capito?!»
    Sarebbe tornato, si ripromise. Appena finito il rapporto al Raikage, o di ritorno dalla prossima missione. Non appena avesse avuto il tempo. Sicuramente sarebbe tornato.
    Ma Hachi era una persona impegnata e quando qualcuno vive per strada è difficile restare fuori dai guai a lungo. Makoto rimase da sola per molto tempo ancora...


    Zona portuale del Villaggio della Nuvola, marzo 217

    Makoto si rallegrava sempre quando arrivava la primavera. Il mondo si scaldava e sotto il suo ponte si dormiva meglio. D’inverno a volte era costretta a lavarsi con la neve e si ritrovava sempre col raffreddore. Solo recentemente aveva scoperto che poteva affittare un bagno nelle taverne in giro, ma era difficile guadagnare abbastanza per poterselo permettere. Aveva paura che rubando troppo sarebbe stata notata. Preferiva volare basso e stare tranquilla. Poteva sopravvivere agli inverni anche solo con la speranza di vedere la primavera. Quando l’acqua dei fiumi che arrivavano dalle montagne si sgelava. Nelle giornate particolarmente soleggiate diventava quasi tiepida. Era davvero splendido.
    Era particolarmente allegra, quella giornata, il che era piuttosto raro. Oltre a un bel bagno tiepido e dei vestiti puliti, si era concessa un po’ di pane fresco e del latte. Era da mesi che non si sentiva così sazia. Era ancora pomeriggio e si stava giusto chiedendo se poteva rubacchiare qualcosina al porto prima che facesse buio e cominciasse a girare gente poco raccomandabile. Si infilò in un vicolo per prendere una scorciatoia e lo attraversò a metà prima che un uomo alto e smilzo si infilasse nello stesso, in direzione opposta alla sua. Makoto lo riconobbe subito. Era uno spacciatore del porto, uno che lavorava per un capo del crimine piuttosto celebre. Un tizio da evitare a tutti i costi, per una come lei. Sembrava piuttosto di fretta e stava attraversando il vicolo a grandi falcate. Makoto ebbe l’istinto di voltarsi e correre via, ma temeva che la cosa l’avrebbe infastidito e preferiva non irritarlo. Si spostò di lato e si fece piccola piccola, sperando che la ignorasse. Ma l’uomo si spostò all’ultimo momento e andò a sbatterle contro apposta, con tanta energia da buttarla a terra - non che ci volesse molto, magra com’era. Makoto temeva che avrebbe usato la scusa per attaccare briga, ma in realtà la superò subito dopo e riprese a muoversi rapidamente. Il motivo, Makoto lo scoprì poco dopo. Due poliziotti fecero la loro comparsa nel vicolo e presero a corrergli dietro. Solo uno dei due si fermò a chiederle se stesse bene. Makoto di certo non aveva intenzione di farsi notare dalla polizia quindi si limitò ad annuire. Fortunatamente, il poliziotto aveva faccende ben più pressanti di cui occuparsi e la abbandonò al suo destino. Makoto si rialzò e iniziò a correre con tutte le forze che aveva in corpo.
    Si fermò solo quando era molto, molto lontana, nel suo rifugio sotto il suo bel ponte di pietra scaldato dal sole. Si infilò nel suo sacco a pelo, tremante nonostante facesse abbastanza caldo, e cercò di realizzare cos’era appena successo, cercando di calmare il fiatone. Si sentiva terrorizzata per non sapeva bene quale motivo. O meglio, aveva qualche idea. Aveva appena avuto un incontro ravvicinato con uno scagnozzo di un signore del crimine e con un poliziotto. Erano entrambe fazioni con cui non voleva avere nulla a che fare. Non voleva finire invischiata nelle faccende del primo e ancora meno voleva rischiare di finire in galera. La sola idea di ritrovarsi in una stanza chiusa da delle sbarre la faceva star male. Sarebbe stato come tornare in quello schifo di orfanotrofio, ma con altri criminali al posto dei bambini e dei poliziotti armati al posto delle badanti. Sentiva il petto stretto da una morsa d’acciaio e faceva fatica a respirare. Si ritrovò a piangere come non aveva mai fatto in vita sua, cosa che le rese la respirazione ancora più problematica. Di lì a poco ebbe un conato di vomito e si sforzò almeno di vomitare fuori dal rifugio. Tanti cari saluti al latte caldo che tanto l’aveva rallegrata poco prima.
    Passarono diverse ore prima che si calmasse abbastanza da riuscire a pensare. Era ormai notte fonda e non era il caso di tornare in città, col rischio di incontrare persone ancora peggiori. Tornò nel sacco a pelo e cercò di dormire.

    Il giorno dopo, stava un po’ meglio. Era di certo ancora turbata per il malessere del giorno prima, ma si sentiva più lucida. Il relativo buonumore durò molto poco, purtroppo. Mentre si cambiava gli abiti per mettersi degli stracci più puliti e che non sapevano di vomito, qualcosa cadde da una delle tasche. Era un pacchetto trasparente che conteneva una polverina bianca che di certo non era farina. Imprecando stretta tra i denti, Makoto poté rivedere quasi al rallentatore la scena del giorno prima, con quel pezzo di merda che le infilava in tasca la patata bollente per non farsi beccare dalla polizia. Irritata, si rivestì e tornò verso il centro, pensando ad un modo per non liberarsi di quella bomba ad orologeria senza finire nei guai. Alla fine non le venne in mente nessuna idea migliore del lanciarla su una nave in partenza mentre nessuno la guardava, poi fuggì via.
    Per qualche giorno evitò il porto per non incappare nello stronzo che l’aveva incastrata in quel modo, muovendosi cautamente ed evitare le zone in cui l’aveva già visto. La sua dieta ne risentì un bel po’ - non era facile procurarsi dei soldi in zone meno affollate - ma ne valeva la pena per tenersi la pellaccia. Purtroppo non servì a molto, e una settimana dopo si ritrovò lo stronzo a rovistare nel suo rifugio come un procione in un bidone dei rifiuti. Non fece in tempo a fuggire via, perché l’uomo l’aveva notata e con una velocità che non si sarebbe aspettata la agguantò per un polso e la sollevò da terra per portare il volto vicino al suo. Era palesemente furente, con gli occhi fuori dalle orbite.
    «Dove l’hai messa, piccola stronza?»
    «Non so di cosa parli.» ringhiò lei in risposta. Purtroppo l’uomo non la prese bene per nulla e la colpì con un pugno allo stomaco.
    «L’hai venduta tu, vero? Ti sei fatta un bel gruzzoletto, scommetto. Oppure te la sei sniffata tu, vero stronzetta? Ti sei divertita?» insistette lui, agitandola dal polso. Makoto stava praticamente ringhiando di dolore. I tendini le facevano male e sentiva che rischiava di lussarsi la spalla da un momento all’altro.
    «Non la voglio la tua merda e i tuoi soldi del cazzo, me ne sono liberata.» disse, sputandogli in faccia e cercando di calciarlo via. Riuscì in qualche modo a divincolarsi, ma prima che potesse fuggire l’uomo la afferrò per i capelli e la tirò a sé. Le acchiappò anche un polso e glielo torse dietro la schiena, portando la bocca vicino all’orecchio.
    «L’hai persa, piccola stronza?» disse, con tono di voce più basso ma palesemente più furente. «E ora glielo spieghi tu al mio cazzo di capo? Quello mi taglia le palle e me le fa ingoiare se lo scopre. Dammi un buon motivo per cui non dovrei sgozzarti in questo momento e togliermi il pensiero.»
    Makoto cercò di divincolarsi, a quel punto con gli occhi pieni di lacrime, lacrime di dolore, frustrazione e rabbia. Voleva ribellarsi, ma non aveva abbastanza forza per fare nulla e l’uomo la teneva fin troppo stretta.
    «Non ti farà ricrescere le palle.» gli disse tra i denti, con la voce spezzata.
    «Ah, ora piangi come una mocciosa, piccola stronza? Mi pare un po’ tardi per i rimpianti, che dici? Mi devi dei soldi, come hai intenzione di ripagarmi?»
    «Fottit-AGH!» Makoto cercò di divincolarsi ancora, ma l’uomo la tirò per i capelli, tanto forte da farla piangere davvero.
    «Magari alla prossima incursione di quei barbari del cazzo ti vendo a loro, che dici? Lo sai cosa fanno alle mocciose come te, vero? Altrimenti cosa? Lo so che sai rubare, ma sei una ladra da due soldi, ci metteresti anni a ridarmi i miei soldi. Però la gente ti ignora, certo, a nessuno frega un cazzo della piccola stronza stracciona. Perfetto. Facciamo che lavori per me finché ripaghi il tuo debito. Ti va di lusso così, piccola stronza.»
    L’uomo sembrava quasi folle nel suo modo di parlare e trasudava violenza. Makoto era terrorizzata, ma era da anni che cercava di non farsi invischiare con quella gente di merda.
    «Fanculo!» gli ringhiò, ormai in lacrime. L’uomo le strinse il polso con ancora più forza. Makoto era sicura che gliel’avrebbe spezzato.
    «Ti pare di avere scelta, piccola stronza?»
    Makoto avrebbe voluto urlare, scalciare, liberarsi e fuggire, ma non poteva farlo. Un’altra parte di lei prese il sopravvento su di lei. Era la parte più selvaggia, più istintiva e animale di lei. E paradossalmente, le fece chinare il capo. Per la prima volta nella sua vita doveva arrendersi. Era una merda tornare a una vita di costrizione, ma non aveva scelta. O quello, o morire. Chinare il capo era l’unico modo per sopravvivere. Sopravvivere e combattere un altro giorno.


    Rifugio di Makoto, 17 maggio 217

    «Non ho più intenzione di fare il cane da riporto per te, Jun.» si ribellò Makoto, ringhiando contro l’uomo. «Ho ripagato il mio debito, quindi levati dal cazzo.»
    «Credi che ci sia un’uscita da ‘sto tunnel, piccola stronza? Pensi che non l’avevo già presa, se c’era? Continuerai a lavorare per me finché cazzo avrò voglia io.»
    Makoto non ne poteva più. Negli ultimi due mesi aveva lavorato tutti i giorni per quel gran pezzo di merda di spacciatore senza guadagnare uno straccio di nulla. Lui fingeva di pagarla, ma era una miseria. Non aveva più il tempo di rubare nelle tasche della gente e non poteva rischiare troppo di farsi scoprire ora che doveva trasportare merci ben più scottanti. Se non altro, aveva scoperto di avere un talento naturale. Nonostante i dolorosi lividi che puntualmente le venivano inferti da Jun, il suo fisico si era sviluppato parecchio negli ultimi mesi. Certo, aveva fatto molta più “attività fisica” di quanto ne avesse mai fatta in vita sua: fuggire dalla polizia, saltare sui tetti, persino combattere contro spacciatori rivali che osavano mettere piede nel loro territorio. Ma aveva anche imparato molto di come funzionava quel mondo, e si era rotta le scatole di dover sottostare a Jun. Era un incapace e un inetto, capace di fare il grosso soltanto con le ragazzine denutrite. E Makoto si era davvero rotta. Per sua sfortuna, Jun era ancora più forte di lei. La sollevò per il colletto e la scaraventò a terra. Mentre si rialzava, Jun si avvicinò lentamente e la colpì con un calcio al costato che la lasciò senza fiato, oltre a costringerla di nuovo a terra.
    «Ricordati sempre che sei sotto di me nella catena alimentare, piccola stronza.» disse, poggiandole un piede sulla schiena e spingendola contro il suolo.
    «Allora mi basta scavalcarti e risalire, non credi?» ringhiò lei, col poco fiato che aveva in corpo.
    «Che hai detto, piccola stronza? Come cazzo ti permetti?» sbraitò lui, colpendola ancora e ancora. «Non sei altro che una minuscola merda sulla mia strada. La più piccola e insignificante delle stronze.»
    «MI CHIAMO MAKOTO!» ruggì lei, cercando di rialzarsi. L’uomo continuava a colpirla. Lei smise di cercare di alzarsi e cercò invece di respirare con calma.
    «Non me ne frega un cazzo di come ti chiami! Sei meno della sporcizia sulla mia scarpa! Sei poco più che un animale! Sei un cazzo di mostro, tu e i tuoi occhi di merda!»
    Qualcosa scattò nella mente di Makoto, qualcosa di istintivo e animale. L’uomo sollevò la gamba per calciarla di nuovo. Mentre la abbassava, Makoto si mosse istintivamente e si spostò dalla traiettoria, rialzandosi e colpendolo la gamba sollevata nel tragitto. La perdita di equilibrio aiutò e la sorpresa fece il resto: l’uomo era scoperto e Makoto gli si avventò addosso, affondando i denti nella sua gola e strappandogli un pezzo di carne. Fu un bagno di sangue. Makoto si ritrovò ben presto il volto e i capelli coperti mentre gli occhi dell’uomo, terrorizzati, la fissavano senza in realtà vederla. Si portò le mani alla gola, come per tamponare, ma era tutto inutile. Makoto sputò il pezzo di carne ai suoi piedi.
    «Gli animali mordono quando li metti all’angolo, piccolo stronzo.» gli disse, col fiatone, rimanendo a guardare la scena. Era esattamente come quella sera all’orfanotrofio, ma era cosciente, a differenza di quella volta. L’odore e il sapore del sangue erano inebrianti. La testa le girava. Ma non poteva star male. Era di nuovo libera. Ridendo tra sé, afferrò i capelli dell’uomo che ancora si contorceva e iniziò a trascinarlo, stranamente senza troppo sforzo. Lo portò fino al fiume e ce lo gettò dentro.
    «♪ Buon compleanno a me... ♪ Buon compleanno a me... ♪» canticchiò, mentre si chinava per specchiarsi nell’acqua. Il fiume lavò via il suo sangue e le sue lacrime, così come la sua vecchia sé stessa.


    Da qualche parte sotto terra, periferia del Villaggio della Nuvola, gennaio 218

    «Mbeh? Che cazzo avete da guardare? Non avete da lavorare?»
    Makoto lanciò uno sguardo ai vari scagnozzi presenti mentre ripuliva la lama retrattile dal sangue con un panno. Sorrise compiaciuta nel guardare i loro sguardi pieni di terrore. D’altronde l’aveva appena usata per trapassare il cuore di uno dei signori del crimine più potenti e famosi. Anzi, se aveva ben capito come funzionava la gerarchia da quelle parti… l’aveva appena sostituito.
    «Abbiamo dei cambiamenti da fare.»


    Da qualche parte sotto terra, periferia del Villaggio della Nuvola, marzo 219

    Makoto sbuffò pesantemente, lasciandosi andare sul suo “trono”. Era semplicemente la sedia più grande e bella, posizionata a capo di una lunga tavola da pranzo addobbata a cui a volte discuteva di lavoro con i suoi luogotenenti, ma in generale le dava un’ottima sensazione sedercisi. Si specchiò distrattamente su uno dei piatti vuoti, guardandosi negli occhi. Aveva i capelli lunghi e disordinati, e da quel bel compleanno passato insieme a Jun il suo occhio sinistro era diventato giallo. La Makoto di un tempo ne sarebbe rimasta sconvolta e terrorizzata. La nuova non se lo poteva permettere. Aveva faticato parecchio per guadagnarsi quel posto e il rispetto dei suoi seguaci, aveva spaccato qualche cranio col suo bel tetsubo ed era in cima alla catena alimentare. Adorava quell’arma, forgiata in titanio e rinforzata con un bel filo spinato tutto attorno all’estremità importante. Uno dei gioiellini che si era potuta permettere con lo stipendio della sua nuova posizione. Era stato un anno decisamente fruttuoso. Aveva sbaragliato le bande rivali che il suo predecessore aveva troppa paura per affrontare, aveva addestrato meglio i suoi scagnozzi e aveva attuato delle politiche più furbe di quelle che lui avrebbe mai potuto pensare. Era normale che avesse attirato l’attenzione delle autorità. Nonostante avesse mantenuto più cautela possibile, aveva fatto delle mosse molto azzardate. Ma arrivare ad avere degli intrusi all’interno del proprio rifugio? Quello era decisamente inaccettabile. Come aveva fatto a trovarlo? Makoto sospettava che qualcuno avesse fatto la spia. Non a caso era rimasta da sola nel rifugio. Non che i suoi scagnozzi potessero fare qualcosa. A giudicare dai suoni, l’intruso era qualcuno di molto fuori dalla loro portata. Lei era l’unica che potesse affrontarla e lo sapeva. Per questo la stava aspettando. Fu comunque sorpresa nello scoprire l’identità dell’intruso quando quest’ultima attraversò le doppie porte della sala, con un leggero fiatone e una katana nera come la notte. Makoto sorrise nel vederla e riconoscerla. Pallida, con i capelli neri, dei segni azzurri sotto agli occhi, e uno di questi, il sinistro, rovinato da un’antica ferita. Lo stemma dei Grafemi del Fulmine dondolava appeso alla sua cintura e persino quella katana nera urlavano ai quattro venti la sua identità.
    «A cosa devo questa visita, Sterminatrice della Serpe?» le chiese, allargando le braccia come ad invitarla ad accomodarsi. «Sei forse venuta a scroccare una cena? Perché no? Giusto stamani mi è arrivato dell’ottimo sakè dal Monte del Piccolo Alce che promette molto bene.»
    «Sai benissimo per cosa sono qui.» rispose lei, arrestando il fiatone con una forza di volontà invidiabile. Sembrava irritata, sicuramente molto decisa, forse i suoi scagnozzi erano riusciti a rendersi utili e avevano fermato i suoi compagni? I ninja di solito lavoravano in gruppo, no?
    «Sì, sì, portarmi davanti alla giustizia e porre fine al mio impero di malefatte, immagino, sono sempre le stesse cose.» rispose, ghignando con leggerezza.
    «Allora puoi arrenderti subito e risparmiare tempo.» disse lei, brandendo la sua katana e preparandosi ad usarla.
    «Non posso proprio permettermelo, Sterminatrice.» le rispose, alzandosi dalla sua sedia e aggirando il tavolo per fronteggiarla, camminando lentamente e trascinandosi dietro il tetsubo in modo che grattasse sul pavimento e facesse un rumore particolarmente fastidioso. La donna non rispose e partì immediatamente all’attacco. Con un ghigno, Makoto ricoprì la propria arma con uno strato di chakra Doton e la frappose tra sé e la katana, la cui lama affondò nella roccia incastrandosi contro di essa. La donna fu costretta a tirarla via e questo diede a Makoto il tempo di contrattaccare, puntando a colpire direttamente l’arma. Lo sbilanciamento dovuto all’estrazione dell’arma e la sorpresa costrinsero la Sterminatrice a ritirarsi e soprattutto, spostare l’arma per evitare fosse distrutta. Palesemente irritata dal suo tentativo di distruzione, la donna ripartì all’attacco. Quando Makoto notò i fulmini che si concentravano attorno alla katana, con un ghigno, puntò nuovamente a difendersi, ma stavolta lo fece attaccando. I fulmini sulla katana distrussero lo strato di roccia sul tetsubo solo per rivelare un nuovo strato di chakra elementale, stavolta d’Aria. Il vantaggio fu abbastanza potente da incrinare la lama della spadaccina, che nuovamente si ritirò con aria stavolta palesemente arrabbiata. Reinfoderò la lama nera per evitare che si rompesse del tutto e rimase ad osservare Makoto.
    «Mi aspettavo di più da un Grafema. Dovrebbero essere l’elite di Kumo, non è così? In un’altra vita mi sarebbe piaciuto farne parte.» la provocò Makoto, allargando il suo ghigno.
    «Non c’è posto nei Grafemi per gente come te.» la rimproverò la donna, senza preoccuparsi di non far trasparire il suo stato d’animo.
    «Suvvia, sei così dura con me. Non mi conosci neanche. Sei sicura che io sia così terribile?» continuò, sempre più divertita dalla situazione.
    «Non ne ho bisogno. Sei solo una criminale.»
    Il tono della Sterminatrice infastidì fin troppo Makoto, che fece una smorfia evidente. Odiava essere sottovalutata. Odiava essere considerata inferiore. Poteva intuire perché la Sterminatrice della Serpe, Saetta Saggia e tutte quelle cagate lì poteva sentirsi superiore a lei. Ma non lo sopportava comunque. L’aveva sopportato fin troppo nella sua vita. Era nata e cresciuta nel nulla e aveva conquistato un impero criminale. Non poteva sopportare il vedersi sminuita in quel modo. Fece schioccare la lingua con un suono infastidito e si tolse la giacca di pelle nera, sistemandola sullo schienale di una sedia. Non voleva rovinarla. Quindi, senza preavviso, riprese l’arma e si scagliò con foga contro la donna. Quest’ultima la schivò senza problemi, per nulla intimorita dalla pesante mazza spinata che le passava a pochi centimetri dal volto. Makoto continuò a cercare di colpirla, inutilmente, fino a che non si rese conto che il peso del Tetsubo la rallentava troppo. A malincuore, lasciò andare l’arma e cercò di cogliere di sorpresa la Sterminatrice con le proprie armi celate. La donna continuò a schivare finché finalmente non si decise a contrattaccare, afferrando il polso di Makoto dopo un affondo particolarmente sbilanciato e scaraventandola a terra. Infuriata, Makoto le ringhiò contro e si scagliò contro di lei nuovamente. Stavolta la presa della donna la scaraventò più lontano, rovesciata sul tavolo.
    «Mi aspettavo di più da un’Imperatrice.» disse la Sterminatrice. «Non dovresti essere in cima alla catena alimentare? Sei comunque più in basso di me. Non riuscirai mai a raggiungermi.»
    Makoto ringhiò, facendo leva sulle braccia per rialzarsi, ignorando tutto il cibo che le era finito addosso.
    «Sei una criminale come tutti gli altri. Una che sfrutta i bambini per vendere la sua droga. Non meriti tutto quel cibo. Non meriti la ricchezza. Non meriti nulla.»
    «Sono cresciuta per strada e sfruttata come mulo per la droga e nessuno ha battuto ciglio!» ruggì Makoto, cominciando ad infuriarsi.
    «Ho comprato l’orfanotrofio! Ho licenziato quelle incapaci di merda e ci ho messo delle educatrici vere! I bambini sono pagati!»
    «Sfrutti i ragazzini senza un soldo per il tuo impero.»
    «Li tolgo dalle strade! Do’ loro una casa, un rifugio caldo e un pasto sempre pronto! È più di quanto il tuo prezioso Raikage abbia mai fatto per me o per le centinaia di bambini nella mia stessa posizione!» urlò, rialzandosi sul tavolo e guardandola dall’alto in basso.
    «Forse dovresti chiederti chi sia il vero criminale!» aggiunse digrignando i denti e saltando giù, pronta ad attaccare nuovamente. Vedeva la Sterminatrice totalmente sfocata, ma poteva continuare a combattere.
    «Come hai detto, scusa?» disse lei, freddamente. Attorno a lei apparve un’aura di chakra visibile, attraversata da sporadiche scariche elettriche. Persino Makoto poté riconoscerlo come il suo peculiare Hayaton di Vento e Fulmine.
    «Il tuo Raikage è così fissato sugli altri villaggi che non si rende conto della situazione del suo paese! Forse dovremmo sostituirlo con uno a cui frega qualcosa degli abitanti, che dici?»
    «E quel qualcuno dovresti essere tu?» chiese, gelida come la neve di Kumo, mentre un’altra scarica attraversava il suo corpo.
    «Perché no? È un’ottima idea! Magari dopo che avrò ucciso te andrò a trovare lui e mi prenderò anche la sua poltrona!»
    La Sterminatrice non rispose neanche. Portò la mano sinistra ad afferrare il fodero della seconda spada che portava al fianco. La destra afferrò il manico. Era una posizione da iaijutsu. Makoto fece per preparare la sua difesa, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa si ritrovò la Sterminatrice a pochi centimetri dal volto. Una sensazione viscida la colse all’altezza dello stomaco. Guardò in basso per vedere la candida lama della Salvatrice uscire dal proprio corpo, sporca del proprio sangue. Tornò a guardare la Sterminatrice, facendo fatica a realizzare cosa fosse appena successo.
    L’ultima cosa che vide prima di cadere nell’oblio fu il riflesso dei propri occhi, estremamente chiaro, nell’occhio sano della donna. Due occhi gialli, dalla sclera nera. Gli occhi di…
    «Un mostro. È quello che resterai, per sempre.»


    Appartamento di Makoto, settembre 219

    Makoto aprì gli occhi nel terrore più totale, estremamente agitata, tanto da cadere giù dal letto prima di riuscire a riprendere cognizione dello spazio attorno a sé. Rei e Minako sollevarono il capo, entrambe allarmate dalle condizioni del risveglio di Makoto, ma lei non le notò neanche mentre lottava con le immagini estremamente vivide appena viste. Non riusciva a scacciarle né ad elaborarle normalmente. Un conato di vomito la costrinse a rialzarsi e a correre in bagno, dove si gettò in ginocchio di fronte alla tazza, rovesciando al suo interno tutto il contenuto del suo stomaco. Non aveva le forze di rialzarsi e di lì a poco vomitò ancora una volta, prima di lasciarsi cadere contro la parete vicina. Si strinse il petto, cercando di respirare normalmente, ma non ci riusciva. Il suo respiro era affannoso e neanche i versi preoccupati delle due donnole che l’avevano seguita in bagno aiutavano a riprendersi. Fu solo quando Minako le si buttò prepotentemente in grembo e forzò la sua testolina contro la sua mano che abbassò lo sguardo verso di lei. Lasciò scivolare la mano lungo tutto il corpo della donnola in una lenta e lunga carezza. Rei imitò la sorella e Makoto fece lo stesso con la mano libera. Al vedere le due donnole e al sentire la loro pelliccia sotto la mano Makoto si forzò a riprendersi abbastanza da rialzarsi. Si avvicinò al lavandino e buttò la testa sotto l’acqua gelida. Si sciacquò la bocca più volte, togliendosi il sapore del vomito. Si sciacquò più volte la faccia, cercando di scacciare dalla sua mente quello che aveva visto. Si forzò a sollevare il capo a guardare lo specchio. Per un attimo la metà sinistra del suo volto sembrò avere lo stesso riflesso visto in sogno, con l’occhio giallo, lo stesso che aveva visto sporgendosi dalla nave quella notte che aveva “incontrato” sua madre. Fu solo un momento, però. A parte i capelli bagnati appiccicati a fronte e guance, che rendevano l’immagine forse un po’ inquietante, non c’era nulla di strano in lei. I suoi occhi erano normali. Azzurri come sempre. Il colore del cielo, del mare e dei laghi. Così dovevano rimanere. Avrebbe fatto meglio a ricordarselo.
    «Ma che cazzo ho mangiato ieri sera?»
     
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    Re dei demoni

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