Una famiglia - la predestinazione

Mini-Evento: La forza di uno

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    Demone puccioso

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    E così si muore.
    Si muore soli, sofferenti, ignoti.
    Si muore senza consapevolezza, negli ultimi dolori che il corpo può provare finché prova, la mente incapace di pensare come svuotata da ogni facoltà intellettiva.
    Immagino il rosso del sangue. Poi solo il nero.
    Cosa ne è stato della mia vita?

    Mi chiamo Kiria Yami Uchiha, sono la prima e unica figlia di Shion Uchiha e Yzume Uchiha, anche se in realtà credo di non somigliare a nessuno dei due. Mio padre Shion è un uomo robusto, massiccio, all'apparenza burbero, mentre mia madre Yzume è una donna alta, slanciata e apparentemente molto disponibile. Con me si sforza di esser gentile, percepisco tutta la fatica nei toni e nei gesti di chi proprio non riesce a tollerare la persona che ha di fronte, eppure sono una bambina ubbidiente: sono totalmente assoggettata ai loro voleri, anche quando questi non compaiono come veri e propri comandamenti.
    Ma io sono una brava bambina.
    Papà dice che la mamma mi vuole bene, ma ha avuto un parto difficile e ha un carattere complesso. Gli ho chiesto cosa significasse complesso, e lui mi ha detto che ha varie sfumature, ci vuole tempo per definirle tutte. Mio padre invece non è complesso, ha una sola sfumatura ed è il colore dell'amore, il rosso. Lui mi adora, è sempre presente e mi ha insegnato tutto ciò che so: le parole, i movimenti, le tecniche.
    Oltre loro non conosco nessuno: ho una salute molto cagionevole, mi ammalo spesso e le medicine che prendo ogni giorno sembrano non sortire nessun effetto se non quello di farmi stare peggio. Papà dice che è normale, sono medicine che agiscono sul lungo periodo: all'inizio stai male ma poi, col passare degli anni, guarisci del tutto; mi ha addirittura promesso che non appena avranno fatto effetto e sarò guarita del tutto mi porterà con lui in missione. La conseguenza della mia malattia - non ha un nome, nessuno si è mai sforzato di definirla - è che non ho mai visto il mondo oltre le mura di casa mia se non attraverso qualche rara foto che ho intravisto dai libri che mi legge mio padre. Io non so leggere: mi è proibito imparare da sola, e i libri sarebbero secondo mia madre una tentazione troppo forte per un esserino fragile come me. Lei mi chiama sempre così, tentando invano di convertire il disgusto in affetto; non è cattiva, è solo complessa.
    Ad ogni modo, non saper leggere non fa di me una persona ignorante: ho nove anni, sono esperta di illusioni e ho già uno sharingan con due tomoe! Papà dice che sono la più giovane Uchiha talentuosa mai esistita, e che appena starò meglio lui e la mamma mi porteranno dall'Hokage perché un talento come me va condiviso con il mondo intero; un giorno, se continuerò a coltivare il tradizionale talento per le illusioni tipico della nostra famiglia, potrò addirittura seguire le sue orme e diventare il capo di certi ninja che fanno le domande. A me piace fare le domande, non vedo l'ora.

    Adoro mio padre, ma ultimamente sta diventando complesso anche lui: spinge tantissimo affinché io migliori ulteriormente, dice che è fondamentale per me risvegliare anche la terza tomoe affinché lo sharingan completo mi aiuti nella guarigione. Yzume ritiene addirittura sia troppo tardi, e forse tutti i loro sacrifici, i loro insegnamenti sono stati vani.
    Una volta li ho origliati mentre discutevano. Lo facevo spesso, devo confessare: ero affascinata dalle loro conversazioni da grandi, dai problemi fuori quelle mura. Li sentivo parlare di un posto dove si compravano le armi chiamato mercato, di un posto con la nebbia che si chiamava proprio come me, un intero paese chiamato Kiria! Li immaginavo, i kiriani: tutti come me, con i capelli corti neri e gli occhi dorati. E un po' mi dispiacevo per i miei amici kiriani immaginari: gli occhi dorati erano stati vietati dalla legge da alcuni anni, per cui i possessori non potevano camminare e mostrarsi ad altri se non con un'orribile benda nera che celasse l'orrore; agli Uchiha era consentito togliere la benda solo con lo sharingan attivo e solo per allenamenti o con firma dell’Hokage. I miei occhi erano molto disgustosi, in effetti: mi dispiaceva molto, perché invece quelli della mamma e del papà erano di un nero perfetto, e proprio non capivo la causa di quell'orrenda mutazione, origine della innominata malattia. Spesso piangevo di nascosto, chiedendomi cosa avessi fatto prima ancora di nascere per esser punita in quel modo; Yzume riteneva che sarei dovuta essere un maschietto, ma nonostante i miei sforzi (i capelli sempre cortissimi, gli abiti maschili e il tentativo talvolta ridicolo di celare una voce troppo sottile) quella punizione continuava ad essere proprio lì, sul mio volto. E neanche la versione più maschile di me era simpatica alla mia mamma.
    Questa volta però la conversazione è diversa.
    Yzume dice che non sono pronta, che sono ancora troppo piccola e che deve darmi il mio tempo. E allora mio papà si arrende, si lascia cadere sulla sedia e, quasi in lacrime, dice che si sente in colpa, che aveva puntato tutto su di me esaurendo le mie energie, e che era uno stupido a pensare che io fossi pronta per l'allenamento finale.
    Allora, svelando tutta la mia maleducazione, entro nella stanza e gli corro tra le braccia.
    Padre, sono pronta per qualsiasi allenamento. La prego, facciamolo! Non la deluderò!
    A papà piace questo modo pomposo di parlare, con la terza persona e senza parole come "papino" o "papà", io lo ritengo stupido ma necessario; infatti lui ora è felice, mi sorride e dice che lui crede in me, che ripone tutta la sua fiducia in me. L'allenamento sarà duro e doloroso, mi spiega, ma alla fine anche tu avrai la tua terza tomoe. Non ho parole per descrivere la gioia di questo momento.

    Non ho parole per descrivere il dolore di questo momento. La terza tomoe si ostina a non spuntare, e io sono legata ad una sedia e sospesa a mezz'aria. Ho scoperto che, proprio sotto casa nostra, c'è la stanza delle domande; nella stanza una sedia, un tavolo con alcuni strumenti da dottore e un recipiente di legno alto quasi due metri forse, gigantesco. Avevo immaginato che gli strumenti da dottore servissero nel caso in cui qualcuno si sentisse male per le domande, magari qualcuno di malato come me, e che la bacinella servisse a fare un bel bagno caldo al termine dell'interrogazione. E forse le cose stavano così, ma per la mia terza tomoe serviva qualcosa di drastico, un allenamento duro. Seduta sulla mia sedia da giorni, il sedere che mi fa male, non ricordo esattamente gli avvenimenti che ho vissuto in questi giorni. Non so neanche da quanti giorni io sia qui, a dire il vero. All'inizio era un classico allenamento tra me e il papà -ninjutsu, genjutsu, armi leggere, armi medie- che di anomalo presentava solo una durata di difficile sopportazione, che prevedeva la fine solo al mio svenimento. Poi, vedendo che nulla nei miei occhi cambiava, siamo passati a qualcosa di diverso. Io ero legata sulla mia sedia, vittima consapevole di illusioni dalle quali tuttavia non potevo liberarmi. La mia testa soffriva tanto, il corpo invece rimaneva illeso. Ma niente, il terzo fagiolino (io li chiamo così, tomoe) non voleva uscire.
    Allora siamo passati al dolore fisico. Mi ha tolto due unghie, inciso un profondo e orribile taglio sul volto. All'inizio ho pianto tanto per il dolore, poi - da sola, lontana da papà- ho pianto ancor di più perché temevo di esser diventata brutta; lì, nel buio e nella solitudine, mi immaginavo mostruosa, senza le unghie del pollice e con un orrendo taglio sul volto ricucito male. Papà credo sapesse della mia paura, perché mi ha detto che sono ancora molto bella. Mi ha anche chiesto più volte se volessi fermarmi, ma gli ho risposto di no: voglio rendere felice il mio papà, riempirlo d'orgoglio verso la sua figlia brava, buona e bella.
    Ora, però, comincio ad essere stanca, insofferente. Ho chiesto a papà, in piedi di fronte a me, di interrompere l'allenamento speciale per qualche giorno, il tempo che io possa riprendermi, ma lui ha rifiutato con cortesia, dicendo che sa che siamo ad un passo dalla riuscita. Annuisco, incerta. Lui preme un pulsante - o tira una leva? nel buio non capisco esattamente il movimento- e giù, verso la bacinella colma d'acqua. Io ho paura dell'acqua: non so nuotare, spegne il fuoco - il mio elemento - ed amplifica l'elettricità - il secondo elemento -rendendola difficile da domare. Allora comincio ad urlare, ma papà mi incita, dice che funzionerà.

    Non ricordo cosa sia successo dopo. Papà dice che sono stata bravissima, mi sono liberata. Mi ha anche informata che la legge sulle persone dagli occhi dorati ora è più severa, a tal punto da costringere i possessori a tenere la benda sempre, anche quando non sono con altre persone. Lo sento singhiozzare, ma gli sorrido e dico che per me non è un problema: giuro solennemente di vivere come cieca, e di non rimuovere mai la benda senza il suo consenso. Io mantengo le promesse. Mi fa notare poi che in quei giorni non avevo mai preso le mie medicine perché ero guarita. Sono sicura sorridesse dalla felicità mentre mi dice: domani ti porto con me, andiamo fuori e potrai anche togliere la benda.

    Yzume mi aiuta a prepararmi. Mi spazzola i capelli, mi lava. Finalmente percepisco il suo amore materno, la stessa gioia e ansia che provo io. Mi bacia per la prima volta sulla guancia, mi dice che è una gioia per lei che io ci sia stata. Non capisco perché utilizzi il verbo al passato, ma la mia felicità di sentire finalmente mia madre vicina è tale da sorvolare su tutto. Sei pronta, mi dice, e corro giù in cortile ad una velocità notevole nonostante la benda, a mio agio in un ambiente estremamente familiare.

    Sono vicina al portone, la mano appoggiata sul legno massiccio dell’ingresso. Faccio per aprirlo, ma sento improvvisamente una sensazione di bagnato ad altezza del petto, il sapore ferruginoso del sangue nella mia bocca. Poi, in ritardo, il dolore. Sento qualcosa di freddo, la stessa cosa che mi ha penetrato, uscire dalle mie carni, mentre debole e incapace mi accascio al suolo. Sento mio padre ridere con Yzume.
    Sento il dolore.
    Sento il rosso dell’amore diventare il rosso del sangue.
    Non sento più nulla.
     
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    E così si uccide.
    Si uccide fermi, impassibili, silenziosi.
    Si uccide la propria figlia senza esitazione, con la consapevolezza di aver raggiunto il proprio scopo, persevarato con pazienza per nove lunghi anni. E si ascoltano i timidi rantolii, versi ambigui che vengono dalla sua bocca quasi non accettasse la morte, poi il silenzio.
    Vedo il rosso del sangue e il nero della benda.
    Cosa ne è stato della sua vita?

    Kiria Yami Uchiha è la mia prima e unica figlia, avuta tuttavia con un’altra donna. Sono sposato da anni con Yzume, donna che non amo né stimo ma il cui sangue è puro quanto il mio, e che tuttavia si è dimostrata incapace di darmi un primogenito maschio, abortito per cause naturali al terzo mese di gravidanza. L’altra donna, di cui non ricordo neppure il nome, era invece bella, sveglia, intelligente. Credo sia stata Yzume a rimuovere in me il ricordo del suo nome, e tuttavia devo averglielo lasciato fare, quasi fosse necessario per quella convivenza. Yzume voleva uccidessi subito la bambina, ma io ho altri progetti: sono ormai stanco, e ho bisogno di occhi nuovi.

    Kiria ha nove anni e ha rivelato presto di essere un’ottima portatrice: ubbidisce senza pensare ad ogni minimo comando e crede praticamente a qualunque cosa le diciamo. Yzume, ad esempio, era infastidita dai suoi occhi: non riusciva a convivere con quello che era lo specchio della mia amante, e riteneva impossibile fingersi la madre di un simile abominio. Allora, di comune accordo, abbiamo inventato un’assurda legge che obbligasse i possessori di occhi dorati ad indossare una benda in presenza di altri. Ero molto scettico mentre raccontavo questa idiozia, temevo mi scoprisse; e invece eccola che ubbidiente mi chiedeva se avevamo già una benda per lei.
    Kiria è una brava bambina.
    Yzume finge davvero male di volerle bene, e ho dovuto inventare qualcosa su un parto difficile, affiancando un commento sul suo carattere che neppure ricordo.

    Oltre noi, Kiria non conosce nessuno: poiché l’obiettivo è crescerla fin tanto che non abbia uno sharingan completo, non potevo permettermi di rivelarne al mondo l’esistenza. È un fantasma in casa, un morto-non-morto che vive le sue giornate nell’attesa che io stabilisca la sua fine, una sorta di maiale da mangiare quando sarà grande abbastanza. Nessuno sa chi sia, nessuno sa che esiste. Per tenerla rinchiusa in casa, l’abbiamo avvelenata giorno dopo giorno, inventando una malattia con leggerezza, senza ricamarne su dettagli che avrebbero reso difficile la gestione della menzogna. Se scalpitava, se cominciava a voler uscire o a fare domande scomode, ecco che aumentavamo la dose di veleno dato come “medicina giornaliera”, ed ecco che febbre, vomito e dissenteria correvano a sedarne lo spirito, ad allettarla e tenerla lontana da noi per un po’.
    Per tenerla nel suo mondo fatto di ignoranza e bugie, inoltre, le abbiamo proibito categoricamente l’accesso a qualunque libro, in modo che potessimo averne maggiore controllo.

    Non sono un uomo cattivo: non dovete pensare a Kiria come ad una bambina, quanto ad un animale. Anche il vostro pollo, il vostro maiale o il vostro manzo sono nati, cresciuti e accuditi con amore fino al giorno in cui diventano ciò che sono predestinati a diventare: il vostro pasto. La loro morte garantisce la vostra sopravvivenza, e allo stesso modo la morte di Kiria garantisce la mia, mi assicurerà maggiore rispetto e potere all’interno del clan. Non sono un mostro, sono come voi.

    Kiria è un animale parzialmente di razza, lo riconosco: a nove anni ha sopportato qualunque forma di tortura o allenamento, che l’ha portata ad avere una discreta padronanza delle arti illusorie e uno sharingan a due tomoe. Nulla di particolare, ad ogni modo, non vedo in lei nessun talento particolare se non una buona propensione all'ascolto. Le ho ugualmente riempito la testa di complimenti, sperando di incentivarla a fare di più, eppure nulla. Sembra essere in una sorta di insormontabile fase di stallo.

    Ho cominciato a fare pressioni, a celare male il mio odio e la mia impazienza, correndo così il rischio di allontanare Kiria e svegliarla dal suo sogno perenne, e allora Yzume mi ha indirizzato sapientemente verso la strada giusta: poiché la bambina era solita spiarci, e noi approfittavamo di quei momenti di curiosità ed invadenza per fornir lei informazioni false, avremmo inscenato una conversazione affinché fosse lei a desiderare di allenarsi di più, a sottoporsi ad un allenamento che sicuramente avrebbe sortito gli effetti sperati.

    Il piano funziona perfettamente: Yzume è una spietata stratega, soprattutto se si tratta di accorciare la vita di Kiria. Ed ora eccola che si dichiara pronta a qualsiasi cosa, seguendo prontamente il copione scritto per lei da mia moglie, così piccina tra le mie braccia, fragile e pallida che avrei potuto ucciderla semplicemente stringendola; percepisco lo sguardo di mia moglie, che al mio posto l’avrebbe uccisa già da tempo. Solo la consapevolezza che toglierle la vita da innamorata di me sarebbe stato più doloroso di una morte in fasce la portava a restare in quella casa, giocare il ruolo della madre assente ma amorevole. Sono felice, felice davvero: ancora pochi giorni e finalmente potrò ucciderla, prendere i suoi occhi e liberarmi di quella creatura che non faceva altro che ricordarmi del figlio maschio che Yzume non mi aveva dato, dell’amore che non avevo vissuto, più in generale dei miei fallimenti emotivi. Non ho parole per descrivere la gioia di questo momento.

    Non ho parole per descrivere la frustrazione di questo momento. La terza tomoe si ostina a non spuntare, nonostante l’allenamento, nonostante le torture prima mentali, tramite terribili illusioni che spesso comportavano la perdita di sensi di mia figlia, poi fisiche, costringendola ad un dolore che riservavo solo alle spie più ricercate. Le ho tolto tutte le unghie, colpito i reni e il fegato causandole dolori lancinanti, straziato le sue costole e i suoi fianchi, imprecando violentemente contro la sua incapacità. Ho persino abusato di lei, in un momento in cui, in preda alla rabbia, mi ha ricordato sua madre. Al termine della tortura, poi, le ho rimosso il ricordo del dolore, la scoperta di avere un padre che in realtà aveva fini ulteriori oltre la sua crescita; avevo inoltre appreso tempo addietro qualche conoscenza di arte medica proprio per tenerla in vita fino al momento opportuno. Le avevo lasciato solo il ricordo di due unghie strappate, in modo da convincerla che l’allenamento stava andando avanti e non creare in lei il sospetto di un vuoto di memoria. Le ho rovinato il viso, ma quello l’ho fatto di proposito: era molto bella, proprio come sua madre.

    Ignoro con cortesia le sue richieste, mentre la tengo sospesa a mezz’aria su una sedia: sono stanco. Ho notato che, sin da bambina, è terrorizzata dall’acqua, allora la affogo, e se non sopravvive me ne farò una ragione, è un Uchiha rotto che ha già raggiunto il suo limite. Ed eccola che va giù, che stoltamente apre la bocca quando ormai è sott’acqua, la tiro su; tossisce, invoca la mia pietà. Di nuovo giù. Così fino a farla vomitare, finché una volta giù si trova in un misto di acqua e vomito; alla fine, prima che perdesse i sensi, vedo i suoi occhi: eccola lì, roteante, la terza tomoe.

    Ho messo mano anche a quell’ultimo ricordo, modificandolo. Ora che la guardo, però, sul suo corpo e sul suo volto sono evidenti i segni della tortura. Le ho fasciato le mani mentre era ancora priva di sensi per impedire che scoprisse la perdita di più di due unghie, ma bisogna procedere con un piano affinché non scopra quanto successo: Yzume ci tiene che lei creda nel mio amore fino alla fine.
    Allora ecco che riprendiamo la vecchia, efficace storia della benda; una volta bendata, incontro lo sguardo di Yzume, divertita: Kiria non avrebbe mai neppure ricordato l’ultima cosa che aveva visto.

    È giunto il tempo.
    Yzume la aiuta a prepararsi, le spazzola i capelli, la lava. Finalmente simulava un vago amore materno, la stessa gioia e ansia che prova Kiria all’idea di vederla finalmente morta. La bacia per la prima volta sulla guancia, le dice che è una gioia per lei che Kiria ci sia stata, ed è sincera: tramite quella bambina, mia moglie ha potuto ottenere la sua vendetta. Il poter assistere alla sua morte dopo averla tenuta per anni in una gabbia di bugie rappresentava per Yzume l’unica via per perdonarmi e tornare ad una vita normale. Ha addirittura utilizzato con leggerezza il verbo al passato, ma Kiria deve essere così felice da non notare quella frase. Seguo Kiria, ormai pronta, lungo il corridoio, per le scale e poi finalmente nel cortile.
    Sta per uscire, è vicina al portone, la mano appoggiata sul legno massiccio dell’ingresso. Stringo la mia katana, e con gioia affondo l’arma nel suo petto, ad altezza del cuore. Sento l’adrenalina scorrere lungo il mio corpo, una gioia e un’impazienza verso l’ottenimento di quegli occhi che pareva essere fuori dal mio controllo. Rido felice, e con me ride anche Yzume.
    Osservo il suo respiro.
    Osservo il suo sangue scorrere.
    Poi, finalmente, tutto è fermo.
     
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    Re dei demoni

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    Il Sommo
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    Da uno dei peggiori gironi dell'inferno!

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    La mancanza di qualcuno è la più forte presenza che si possa sentire. Questo sogno di una realtà così lontana e diversa, in cui l'assenza di una persona ha avuto un impatto profondo, lascia un'impronta indelebile in te e, sia che tu ricordi cosa hai visto sia che tu non ne abbia memoria, al tuo risveglio ti senti in qualche modo cresciuta.
    Ottieni 36 exp

    Per quanto buia possa essere la notte, arriverà sempre il giorno ad illuminarti con le sue certezze e a farti sentire viva
    Sei una delle vincitrici e ottieni la possibilità di crearti un oggetto personale con potere di livello massimo C legato al mini-evento. Nel caso in cui tu voglia creare un oggetto per cui servirebbe una quest di livello maggiore questo premio varrà come uno sconto ai fini della quest di ottenimento.
     
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