Demone puccioso
- Group
- Suna
- Posts
- 834
- Powanza
- +42
- Status
|
|
E così si muore. Si muore soli, sofferenti, ignoti. Si muore senza consapevolezza, negli ultimi dolori che il corpo può provare finché prova, la mente incapace di pensare come svuotata da ogni facoltà intellettiva. Immagino il rosso del sangue. Poi solo il nero. Cosa ne è stato della mia vita?
Mi chiamo Kiria Yami Uchiha, sono la prima e unica figlia di Shion Uchiha e Yzume Uchiha, anche se in realtà credo di non somigliare a nessuno dei due. Mio padre Shion è un uomo robusto, massiccio, all'apparenza burbero, mentre mia madre Yzume è una donna alta, slanciata e apparentemente molto disponibile. Con me si sforza di esser gentile, percepisco tutta la fatica nei toni e nei gesti di chi proprio non riesce a tollerare la persona che ha di fronte, eppure sono una bambina ubbidiente: sono totalmente assoggettata ai loro voleri, anche quando questi non compaiono come veri e propri comandamenti. Ma io sono una brava bambina. Papà dice che la mamma mi vuole bene, ma ha avuto un parto difficile e ha un carattere complesso. Gli ho chiesto cosa significasse complesso, e lui mi ha detto che ha varie sfumature, ci vuole tempo per definirle tutte. Mio padre invece non è complesso, ha una sola sfumatura ed è il colore dell'amore, il rosso. Lui mi adora, è sempre presente e mi ha insegnato tutto ciò che so: le parole, i movimenti, le tecniche. Oltre loro non conosco nessuno: ho una salute molto cagionevole, mi ammalo spesso e le medicine che prendo ogni giorno sembrano non sortire nessun effetto se non quello di farmi stare peggio. Papà dice che è normale, sono medicine che agiscono sul lungo periodo: all'inizio stai male ma poi, col passare degli anni, guarisci del tutto; mi ha addirittura promesso che non appena avranno fatto effetto e sarò guarita del tutto mi porterà con lui in missione. La conseguenza della mia malattia - non ha un nome, nessuno si è mai sforzato di definirla - è che non ho mai visto il mondo oltre le mura di casa mia se non attraverso qualche rara foto che ho intravisto dai libri che mi legge mio padre. Io non so leggere: mi è proibito imparare da sola, e i libri sarebbero secondo mia madre una tentazione troppo forte per un esserino fragile come me. Lei mi chiama sempre così, tentando invano di convertire il disgusto in affetto; non è cattiva, è solo complessa. Ad ogni modo, non saper leggere non fa di me una persona ignorante: ho nove anni, sono esperta di illusioni e ho già uno sharingan con due tomoe! Papà dice che sono la più giovane Uchiha talentuosa mai esistita, e che appena starò meglio lui e la mamma mi porteranno dall'Hokage perché un talento come me va condiviso con il mondo intero; un giorno, se continuerò a coltivare il tradizionale talento per le illusioni tipico della nostra famiglia, potrò addirittura seguire le sue orme e diventare il capo di certi ninja che fanno le domande. A me piace fare le domande, non vedo l'ora.
Adoro mio padre, ma ultimamente sta diventando complesso anche lui: spinge tantissimo affinché io migliori ulteriormente, dice che è fondamentale per me risvegliare anche la terza tomoe affinché lo sharingan completo mi aiuti nella guarigione. Yzume ritiene addirittura sia troppo tardi, e forse tutti i loro sacrifici, i loro insegnamenti sono stati vani. Una volta li ho origliati mentre discutevano. Lo facevo spesso, devo confessare: ero affascinata dalle loro conversazioni da grandi, dai problemi fuori quelle mura. Li sentivo parlare di un posto dove si compravano le armi chiamato mercato, di un posto con la nebbia che si chiamava proprio come me, un intero paese chiamato Kiria! Li immaginavo, i kiriani: tutti come me, con i capelli corti neri e gli occhi dorati. E un po' mi dispiacevo per i miei amici kiriani immaginari: gli occhi dorati erano stati vietati dalla legge da alcuni anni, per cui i possessori non potevano camminare e mostrarsi ad altri se non con un'orribile benda nera che celasse l'orrore; agli Uchiha era consentito togliere la benda solo con lo sharingan attivo e solo per allenamenti o con firma dell’Hokage. I miei occhi erano molto disgustosi, in effetti: mi dispiaceva molto, perché invece quelli della mamma e del papà erano di un nero perfetto, e proprio non capivo la causa di quell'orrenda mutazione, origine della innominata malattia. Spesso piangevo di nascosto, chiedendomi cosa avessi fatto prima ancora di nascere per esser punita in quel modo; Yzume riteneva che sarei dovuta essere un maschietto, ma nonostante i miei sforzi (i capelli sempre cortissimi, gli abiti maschili e il tentativo talvolta ridicolo di celare una voce troppo sottile) quella punizione continuava ad essere proprio lì, sul mio volto. E neanche la versione più maschile di me era simpatica alla mia mamma. Questa volta però la conversazione è diversa. Yzume dice che non sono pronta, che sono ancora troppo piccola e che deve darmi il mio tempo. E allora mio papà si arrende, si lascia cadere sulla sedia e, quasi in lacrime, dice che si sente in colpa, che aveva puntato tutto su di me esaurendo le mie energie, e che era uno stupido a pensare che io fossi pronta per l'allenamento finale. Allora, svelando tutta la mia maleducazione, entro nella stanza e gli corro tra le braccia. Padre, sono pronta per qualsiasi allenamento. La prego, facciamolo! Non la deluderò! A papà piace questo modo pomposo di parlare, con la terza persona e senza parole come "papino" o "papà", io lo ritengo stupido ma necessario; infatti lui ora è felice, mi sorride e dice che lui crede in me, che ripone tutta la sua fiducia in me. L'allenamento sarà duro e doloroso, mi spiega, ma alla fine anche tu avrai la tua terza tomoe. Non ho parole per descrivere la gioia di questo momento.
Non ho parole per descrivere il dolore di questo momento. La terza tomoe si ostina a non spuntare, e io sono legata ad una sedia e sospesa a mezz'aria. Ho scoperto che, proprio sotto casa nostra, c'è la stanza delle domande; nella stanza una sedia, un tavolo con alcuni strumenti da dottore e un recipiente di legno alto quasi due metri forse, gigantesco. Avevo immaginato che gli strumenti da dottore servissero nel caso in cui qualcuno si sentisse male per le domande, magari qualcuno di malato come me, e che la bacinella servisse a fare un bel bagno caldo al termine dell'interrogazione. E forse le cose stavano così, ma per la mia terza tomoe serviva qualcosa di drastico, un allenamento duro. Seduta sulla mia sedia da giorni, il sedere che mi fa male, non ricordo esattamente gli avvenimenti che ho vissuto in questi giorni. Non so neanche da quanti giorni io sia qui, a dire il vero. All'inizio era un classico allenamento tra me e il papà -ninjutsu, genjutsu, armi leggere, armi medie- che di anomalo presentava solo una durata di difficile sopportazione, che prevedeva la fine solo al mio svenimento. Poi, vedendo che nulla nei miei occhi cambiava, siamo passati a qualcosa di diverso. Io ero legata sulla mia sedia, vittima consapevole di illusioni dalle quali tuttavia non potevo liberarmi. La mia testa soffriva tanto, il corpo invece rimaneva illeso. Ma niente, il terzo fagiolino (io li chiamo così, tomoe) non voleva uscire. Allora siamo passati al dolore fisico. Mi ha tolto due unghie, inciso un profondo e orribile taglio sul volto. All'inizio ho pianto tanto per il dolore, poi - da sola, lontana da papà- ho pianto ancor di più perché temevo di esser diventata brutta; lì, nel buio e nella solitudine, mi immaginavo mostruosa, senza le unghie del pollice e con un orrendo taglio sul volto ricucito male. Papà credo sapesse della mia paura, perché mi ha detto che sono ancora molto bella. Mi ha anche chiesto più volte se volessi fermarmi, ma gli ho risposto di no: voglio rendere felice il mio papà, riempirlo d'orgoglio verso la sua figlia brava, buona e bella. Ora, però, comincio ad essere stanca, insofferente. Ho chiesto a papà, in piedi di fronte a me, di interrompere l'allenamento speciale per qualche giorno, il tempo che io possa riprendermi, ma lui ha rifiutato con cortesia, dicendo che sa che siamo ad un passo dalla riuscita. Annuisco, incerta. Lui preme un pulsante - o tira una leva? nel buio non capisco esattamente il movimento- e giù, verso la bacinella colma d'acqua. Io ho paura dell'acqua: non so nuotare, spegne il fuoco - il mio elemento - ed amplifica l'elettricità - il secondo elemento -rendendola difficile da domare. Allora comincio ad urlare, ma papà mi incita, dice che funzionerà.
Non ricordo cosa sia successo dopo. Papà dice che sono stata bravissima, mi sono liberata. Mi ha anche informata che la legge sulle persone dagli occhi dorati ora è più severa, a tal punto da costringere i possessori a tenere la benda sempre, anche quando non sono con altre persone. Lo sento singhiozzare, ma gli sorrido e dico che per me non è un problema: giuro solennemente di vivere come cieca, e di non rimuovere mai la benda senza il suo consenso. Io mantengo le promesse. Mi fa notare poi che in quei giorni non avevo mai preso le mie medicine perché ero guarita. Sono sicura sorridesse dalla felicità mentre mi dice: domani ti porto con me, andiamo fuori e potrai anche togliere la benda.
Yzume mi aiuta a prepararmi. Mi spazzola i capelli, mi lava. Finalmente percepisco il suo amore materno, la stessa gioia e ansia che provo io. Mi bacia per la prima volta sulla guancia, mi dice che è una gioia per lei che io ci sia stata. Non capisco perché utilizzi il verbo al passato, ma la mia felicità di sentire finalmente mia madre vicina è tale da sorvolare su tutto. Sei pronta, mi dice, e corro giù in cortile ad una velocità notevole nonostante la benda, a mio agio in un ambiente estremamente familiare.
Sono vicina al portone, la mano appoggiata sul legno massiccio dell’ingresso. Faccio per aprirlo, ma sento improvvisamente una sensazione di bagnato ad altezza del petto, il sapore ferruginoso del sangue nella mia bocca. Poi, in ritardo, il dolore. Sento qualcosa di freddo, la stessa cosa che mi ha penetrato, uscire dalle mie carni, mentre debole e incapace mi accascio al suolo. Sento mio padre ridere con Yzume. Sento il dolore. Sento il rosso dell’amore diventare il rosso del sangue. Non sento più nulla.
|
|