She's trapped, and she's alone

Mini-evento: La forza di uno

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Demone perturbatore di anime

    Group
    Kumo
    Posts
    13,232
    Powanza
    +26

    Status
    Quando Akane aprì gli occhi si ritrovò in una stanza al contempo sconosciuta e familiare. I raggi caldi del sole mattutino le danzavano sul corpo, mossi dal venticello che scuoteva le tende bianche della finestra sopra il suo letto. Aveva le lenzuola attorcigliate intorno a una sola gamba, la sinistra, come al solito. Akane tirò su il busto e si stropicciò gli occhi con una mano, sopprimendo a malapena uno sbadiglio. Da una parte non voleva alzarsi. Il letto era caldo, e comodo, e lei aveva tanto sonno. Ma suo padre sarebbe andato in missione a breve, quindi avrebbe fatto meglio a sbrigarsi se voleva incrociarlo prima che uscisse.
    Piangiucchiò un po’ quando i piedi nudi toccarono il parquet freddo, ma si abituò in fretta, e subito dopo indossò le ciabatte, quindi il danno fu minimo. Non prestò la minima occhiata alla tenuta da casa che l’aspettava, ben piegata, su una sedia: era domenica e di domenica le era permesso rimanere tutto il giorno in pigiama. Regole della casa. Invece si fermò a rimirare gli abiti buoni che sua madre aveva stirato la sera prima, appesi con cura su una gruccia, accanto allo specchio a figura intera. Quelli sì che non vedeva l’ora di indossarli. Mancava così poco! Si ritrovò a sorridere come una stupida al suo stesso riflesso trasandato. Ne approfittò per pettinarsi i lunghi capelli neri con le mani, avvicinando eccessivamente il volto alla superficie riflettente per assicurarsi di non aver lasciato fuori posto un singolo capello. Una volta sistemata diede un’ultima occhiata come si deve alla sua divisa, e infine sfrecciò fuori dalla stanza. Ad accoglierla in cucina trovò la madre intenta a cucinare, con il piccolo Jotaro avvolto in lenzuoli su lenzuoli in modo tale da poter essere ben affisso alla sua schiena, e il padre seduto al tavolo, giornale aperto di fronte al volto. Sul braccio brillava il suo coprifronte, rappresentante il simbolo inconfondibile del paese dell’Erba.

    Akane sorrise, smagliante, e annunciò il suo arrivo con un sonoro “Buongiorno!”, prima di sedersi accanto al padre, che voltandosi verso di lei le rivolse un sorriso a sua volta. O almeno così credeva. Il suo volto era un po’ sfocato, non riusciva a distinguere bene i suoi tratti. Ma aveva lasciato gli occhiali da vista in stanza, visto che la mattina le davano fastidio, quindi non se ne preoccupò più di tanto.

    – Akane, vatti a lavare le mani! –, la rimproverò sua madre, più per abitudine che per altro, e Akane sbuffò, scendendo dalla sedia con un saltello e muovendosi a passi pesanti verso il bagno. Non era colpa sua se se ne dimenticava sempre, e poi cosa cambiava? Mica avrebbe toccato il cibo degli altri? Cosa importava a sua madre se mangiava il suo cibo con le mani sporche?

    Sicuramente se ne approfittava perché la riteneva ancora una bambina, pensò mentre si metteva in punta di piedi per raggiungere al meglio il lavello e allo stesso tempo specchiarsi un po’ mentre si lavava le mani. Ma non sarebbe stato così a lungo! Anzi, le cose sarebbero cambiate di lì a ventiquattro ore. Quella notte si sarebbe addormentata, risvegliandosi adulta! Non vedeva l’ora!

    – Akane! E’ pronto! –, sentì nuovamente sua madre urlare, e lei si affrettò ad asciugarsi le mani, correndo verso la cucina come una saetta. O meglio, come una bambina affamata. Non si vergognò della velocità con la quale obbedì all’ordine della madre, perché sapeva che, nel bene o nel male, tutti i bambini dovevano farlo. Per quello aveva bisogno che domani arrivasse in fretta.

    Sua madre era a tavola, e Jotaro sul seggiolone, mentre suo padre aveva posato il giornale per dedicarsi alla colazione. Akane tornò a prendere il posto accanto a lui, e l’uomo le scompigliò affettuosamente i capelli, ignorando le proteste della bambina.

    – Pronta per il tuo primo giorno di Accademia domani? –, le chiese, e Akane quasi cacciò un urlo dall’eccitazione. La madre, di fronte a lei, si portò velocemente un dito alle labbra per consigliarle caldamente di evitare. Poi lanciò un’occhiataccia al marito, che si limitò a fare una risatina colpevole.

    – Finite di mangiare e poi potrete parlare quanto volete di qualunque cosa vogliate, ok? –, Akane si cucì le labbra, prendendo le bacchette alla sua destra, ma prima di iniziare a mangiare si voltò verso il padre e, in risposta alla sua domanda, annuì con forza almeno cinque o sei volte. L’uomo, semi-nascosto dalla ciotola di zuppa di miso che aveva portato al volto per berne il contenuto, le fece un occhiolino complice. Avrebbero avuto un po’ di tempo per discuterne prima che lui partisse. Le aveva promesso di rivelarle tutte le strategie vincenti per fare amicizia sin dal primo giorno e per fare una buona impressione con gli insegnanti. Ci contava!

    Non avrebbe accettato un primo giorno meno che perfetto.



    Il giorno dopo, invece di svegliarsi “adulta” come aveva sperato, Akane si ritrovò orfana di padre. Non avrebbe mai saputo i dettagli della tragedia, non le venne dato nessun nome, gruppo, o concetto da odiare, perché era troppo piccola e chi di dovere decise di non prendersi la briga di spiegare concetti così difficili a una bambina. Akane era sicura che avessero detto qualcosa alla madre, anche se non ebbe il tempo di scoprirlo: neanche dieci giorni dopo, tornando dall’Accademia che adesso sentiva di odiare, perché non aveva formato ninja forti abbastanza da aiutare il suo papà, trovò sia lei che Jotaro senza vita sul pavimento del salotto, gola squarciata e sangue ovunque. Sua madre stringeva il coltello con una mano, e cingeva con l’altro braccio il piccolo corpo ancora caldo del figlio.

    Akane era ancora viva per caso. Se fosse rimasta a casa, quella mattina, se avesse deciso di non andare in Accademia per qualunque motivo, forse sarebbe morta anche lei. Forse sua madre l’avrebbe uccisa come aveva fatto con il suo fratellino. O forse Akane sarebbe riuscita a convincerla a non farlo? Non avrebbe mai saputo con certezza neanche quello.

    La mandarono a vivere da una zia da parte di padre, insieme al marito e ai loro tre figli. Smise di frequentare l’Accademia, perché la zia aveva bisogno di aiuto in casa, e lei non poteva permettersi di andare in giro a giocare alla ninja quando la donna era stata tanto gentile da accoglierla in casa sua. Akane accettò senza tante storie. Tanto ormai non aveva più senso continuare. Si sentiva più utile a casa, ad aiutare la zia, anche se la zia la trattava male, la oberava di lavoro e stava sempre dalla parte dei suoi figli quando loro la prendevano in giro, insultavano, malmenavano. Akane non reagiva, come avrebbe potuto? Era la più piccola, ed era debole. Aveva frequentato l’Accademia per poco più di una settimana. Non aveva imparato ancora nulla di utile.

    Era ancora una bambina.

    Fu per questo che aspettò di aver compiuto quindici anni prima di scappare di casa. Portò con sé tutti i ryo che poté infilare in tasca, di fatto rapinando i suoi zii, ma lo considerò come una retribuzione prorogata per il lavoro che aveva svolto in quei cinque anni. Con quei soldi pagò un mercante affinché la facesse uscire dal villaggio di nascosto, decisione che quasi dimezzò i suoi risparmi, ma che in compenso le permise di comprare la propria libertà.

    Per i due anni successivi vagò di piccolo villaggio in piccolo villaggio, viaggiando sempre ed esclusivamente da sola, fermandosi in un luogo solamente quando i suoi fondi iniziavano a scarseggiare e impegnandosi in qualunque tipo di lavoro, finché fosse onesto, per recuperare i soldi spesi e permettersi di partire di nuovo. Non era la vita che aveva sognato quando aveva ancora una famiglia e un futuro radioso davanti, ma aveva imparato ad accontentarsi e a vivere ogni giorno, ogni momento, come se fosse l’ultimo. A nulla più le sarebbe servito pianificare il proprio domani, quando un’incognita qualunque avrebbe potuto rovinare tutto da un momento all’altro.

    E poi, non avere più una routine, un piano da seguire, era ciò che più si avvicinava, per la sua mente da bambina mai cresciuta davvero, alla libertà più totale. Poteva andare dove voleva, fare ciò che voleva, spendere i suoi soldi come meglio credeva. Aveva il mondo a sua disposizione. Non le restava che prenderlo, o farsi schiacciare dal peso di così tante scelte, così tanti percorsi da poter intraprendere.

    L’unica parvenza di regolarità che si abbatté sulla sua vita totalmente irregolare fu l’essere presa come aiutante tuttofare in un piccolo e modesto ristorante di un villaggio quasi al confine con il paese della Terra. Il proprietario era un uomo apparentemente burbero ma di buon cuore, e le ricordava molto sua madre. Le insegnò a cucinare, le diede un posto dove vivere che non fosse il solito motel di bassa lega, e per un po’ le regalò una pace che non credeva avrebbe mai ritrovato. Durò più di qualunque altro lavoro avesse mai svolto. Due anni. Due anni di routine, di errori e successi, di soddisfazioni, di un legame che, in cuor suo, sperava non si sarebbe mai spezzato.

    Paradossalmente fu Akane stessa a reciderlo. Lasciò la locanda per tornare sulla strada, sacca piena dei ryo che aveva faticosamente messo da parte, perché dopo due anni vissuti nello stesso posto, a fare le stesse cose, Akane era ad un passo dal limite. Si lasciò tutto alle spalle quando la situazione iniziò a farsi troppo soffocante, e seppure sapesse di non avere motivo di pentirsene, razionalmente, una piccola parte di lei provò ad opporsi a quella decisione. Fu per quel motivo che lasciò una lettera al locandiere, dove spiegava il motivo della sua partenza, e lo ringraziava di tutto ciò che aveva fatto per lei. Si sentì in dovere di giustificarsi per le sue azioni, per la prima volta in nove anni. Lasciò una parte di sé in quel luogo, su quella carta, usando quell’inchiostro. Sperava che l’uomo avesse il buon cuore di perdonarla e di ricordarsi di lei a lungo.

    Akane aveva già problemi a riportare alla mente il suo volto.



    Ogni cosa finisce. Ogni vita ha una scadenza. Akane lo sapeva meglio di tutti, eppure se qualcuno le avesse detto che avrebbe davvero incontrato la sua fine in uno squallido motel del paese della Terra, nel bel mezzo del nulla, per via di un mucchio di teppisti assetati di denaro e senza il minimo rispetto per la vita umana, non vi avrebbe mai creduto.

    Quando aveva sentito i primi rumori era notte fonda. Dalla camera in fondo al corridoio iniziarono a provenire dei frastuoni, rumore di mobilio spinto a terra, di vetri rotti, urla e singhiozzi e panico. Akane si alzò di scatto dal letto, afferrando la sacca da viaggio con la quale dormiva ogni notte, pronta a lasciare la stanza immediatamente, quando un sonoro colpo alla porta la paralizzò sul posto. Un calcio. Delle voci dall’altra parte. Un secondo calcio.

    Al terzo calcio furono dentro.

    Uno dei tre sconosciuti la prese immediatamente per le spalle, spingendola contro il muro e facendole sbattere dolorosamente la nuca, mentre il secondo mise subito le mani alla sacca per strappargliela di dosso. Akane decise di non ostacolarli, in quel momento troppo attaccata alla sua vita per inimicarseli, e soffocando i singhiozzi per lo spavento lasciò andare la borsa, alzando le mani in segno di resa quando fu lasciata libera. Tremava visibilmente, ma cercò con tutte le sue forze di non piangere.

    I tre si scambiarono un’occhiata, il terzo rimanendo sull’uscio per controllare che non stesse arrivando nessuno, dopodiché lasciarono la stanza senza dire né farle altro. Non si chiusero la porta alle spalle, ma Akane non se la sentì di rimproverarli sul momento.

    Le gambe le cedettero, portandola a scivolare a terra, seduta con la schiena contro il muro. Cercò di regolare il proprio respiro, portando poi una mano alla bocca per soffocare il pianto che la inondò come un fiume in piena. Doveva fare meno rumore possibile. Non voleva che tornassero.

    Lentamente, molto lentamente, lei si calmò, e i rumori fuori si affievolirono fino a cessare. I rapinatori dovevano aver ripulito tutte le stanze, o qualcosa doveva averli fatti fuggire. In ogni caso, lei era al sicuro. Non aveva più un quattrino, né cambio di vestiti, non aveva più niente, ma era ancora viva. Ancora una volta, era sopravvissuta. E non per caso. Si era meritata di vivere un altro giorno.

    Si rimise in piedi, barcollante, e andò a chiudere la porta. Sarebbe stato impossibile per lei tornare a dormire, quindi avrebbe aspettato di ritornare in forze e poi avrebbe lasciato il motel. Si mosse verso il piccolo bagno, per darsi una sciacquata. La figura che ricambiò il suo sguardo dall’altra parte dello specchio era trasandata, pallida e visibilmente scossa, ma Akane si ritrovò a sorridere comunque. Quantomeno per darsi forza, e darla al proprio riflesso. Si lavò il volto e le mani, studiando con attenzione quasi clinica i segni sul braccio lasciati dal brigante, che sarebbero sicuramente diventati dei brutti lividi nel giro di qualche ora.

    Era sul punto di andare in bagno, mentre che c’era, quando un tuono in lontananza attirò la sua attenzione. Si affacciò dal bagno, nel tentativo di scrutare oltre la piccola finestra per assicurarsi se stesse effettivamente piovendo. Sentì un altro tuono in lontananza. E poi un altro. Sempre più vicini.

    Nel giro di un istante, una forza incredibile spalancò la sua porta. Chiuse gli occhi e si portò le braccia al volto per schermarsi dalla luce accecante, e dal tremendo calore che le avviluppò le membra, invano.

    La sua camera saltò in aria insieme al resto del motel, prima che Akane potesse accorgersene. Morì in fretta, senza provare dolore.

    E come ogni altra creatura a questo mondo, morì da sola.



    Quando Akane aprì gli occhi si ritrovò nella stessa camera d’hotel nella quale si era addormentata qualche ora prima, nel paese della Pioggia. Si tirò su di scatto, portandosi una mano alla fronte madida di sudore, e poco dopo l’altra al petto, sentendo il battito impazzito del proprio cuore sotto il palmo. Deglutì a fatica, avvertendo chiaramente il nodo alla gola che minacciava di farla scoppiare a piangere da un momento all’altro.

    Era stato tutto un sogno? Un incubo? Nulla di ciò che aveva visto era reale? Quella Akane, orfana, sola, debole e miserabile, abbandonata da Jashin... non esisteva? Non era lei, giusto?

    Si lanciò verso il comò accanto al letto, dove aveva poggiato la sacca con le sue armi. C’era solo un modo di scoprirlo. Prese la prima lama che tastò, impugnandola goffamente e squarciando la pelle dell’avambraccio con un movimento veloce. La paura e il suo addestramento attutirono il dolore, ma come al solito la visione del proprio sangue le provocò un attacco di nausea, talmente forte da farle dubitare di riuscire a tenere a bada il proprio stomaco.

    I secondi passarono con una lentezza più dolorosa di qualunque ferita. Akane attese e attese, lacrime accumulate agli angoli degli occhi, pronte a sgorgare al minimo stimolo. Nella sua mente c’era posto per una sola domanda. Se il sangue non si fosse fermato, cosa avrebbe fatto? Cosa avrebbe voluto dire? Sarebbe tornata mortale, debole e vulnerabile? Non voleva morire. Non prima di aver compiuto la sua missione. Non prima di aver dato tutto ciò che aveva per soddisfare Jashin.

    Eppure… se il sangue avesse continuato a scorrere, se non avesse più ricevuto la benedizione di Jashin… anche quello sarebbe stato il Suo volere. Chi era lei per dubitare delle Sue decisioni? Avrebbe dovuto semplicemente accettarlo. Accettare di non aver fatto abbastanza, accettare di averlo deluso, di essere stata abbandonata.

    Il primo singhiozzo venne seguito da un altro, e un altro ancora, e in men che non si dica Akane iniziò a piangere disperatamente, piangere come una bambina, senza fare nulla per soffocare i suoi lamenti. Nonostante le lacrime ad annebbiarle la vista però non distolse per un attimo lo sguardo dalla sua ferita finché quest’ultima, con una lentezza che poteva solo significare una cosa, non smise di sanguinare.

    La vista dello squarcio annerito fece poco per rasserenare Akane, che continuò a piangere senza avere il minimo controllo del proprio corpo per ancora un bel po’, rannicchiata sul letto e con il dolore pulsante della ferita a ricordarle degli attimi di terrore che aveva appena provato. Quando riuscì a muovere nuovamente i suoi arti si alzò dal giaciglio, pallida come un fantasma, scivolando fuori dalla stanza con ancora il kunai in mano al posto dell’ombrello, che si lasciò alle spalle.

    Il tempo a sua disposizione era quasi agli sgoccioli. Akane avrebbe rimediato stanotte.

    Nel mulino che Akane non vorrebbe nessun buon jashinista samaritano l'ha introdotta in una setta :'( tragic


    Edited by Naeli • - 19/9/2019, 18:54
     
    Top
    .
  2.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Re dei demoni

    Group
    Il Sommo
    Posts
    1,762
    Powanza
    +668
    Location
    Da uno dei peggiori gironi dell'inferno!

    Status
    La mancanza di qualcuno è la più forte presenza che si possa sentire. Questo sogno di una realtà così lontana e diversa, in cui l'assenza di una persona ha avuto un impatto profondo, lascia un'impronta indelebile in te e, sia che tu ricordi cosa hai visto sia che tu non ne abbia memoria, al tuo risveglio ti senti in qualche modo cresciuta.
    Ottieni 12 exp
     
    Top
    .
1 replies since 17/9/2019, 17:39   68 views
  Share  
.
UP